15 Ago LE ATTIVITÀ CONNESSE NEL SETTORE VITIVINICOLO
di Vanni Fusconi - Pubblicato sulla Rivista n. 08/09 2024 di ConsulenzaAgricola.it
La legge di orientamento in agricoltura, rubricata “Orientamento e modernizzazione del settore agricolo”, ha riscritto l’art. 2135 c.c., innovando in modo deciso il concetto di attività agricole connesse.
Con la nuova disposizione, infatti, viene abbandonato il concetto di “normalità”[1] e introdotto quello della “prevalenza”, superando così la centralità dell’elemento “terra” che diventa elemento di mero supporto all’attività agricola.[2]L’esercizio dell’attività agricola non è quindi più incompatibile con una dimensione rilevante dell’impresa, con la complessità della sua organizzazione o con la consistenza degli investimenti effettuati[3], poiché assume primaria importanza il concetto di connessione secondo il parametro della prevalenza.
I principi ispiratori della riforma del 2001 trovano piena e completa attuazione nel settore vitivinicolo che più di ogni altro è lo specchio di una agricoltura evoluta con un carattere imprenditoriale. L’imprenditore vitivinicolo, infatti, va oltre la produzione primaria di uve e investe sulla crescita aziendale che non può non passare dal processo di trasformazione delle uve in vino, dalla manipolazione del prodotto (taglio), dal branding, dallo sviluppo, dall’ampliamento e dalla ricerca costante di nuovi asset che possano garantire all’azienda non solo di sopravvivere ma di crescere. In questo processo di crescita l’imprenditore al fine di mantenere il requisito dell’agrarietà non può prescindere dal rispetto del parametro della “prevalenza” così come enunciato nel terzo comma dell’art. 2135 del Codice Civile[4].
Il requisito di connessione nella produzione vitivinicola
Ai fini fiscali l’art. 2, comma 6, lettera a) della Legge 24 dicembre 2003, n. 350, ha riformulato l’art. 32, comma 2, lettera c), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 [5] (TUIR), ricomprendendo, nel regime dei redditi agrari stimati catastalmente, le attività aventi ad oggetto la manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di determinati prodotti agricoli tassativamente indicati in un apposito Decreto Ministeriale[6] ed ottenuti dall’imprenditore agricolo prevalentemente dalla coltivazione del fondo, del bosco o dall’allevamento di animali.
L’utilizzo da parte del legislatore dei termini consequenziali “manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione” ha creato incertezze interpretative, poiché il tenore letterale della disposizione potrebbe indurre a ritenere che anche lo svolgimento di una sola delle suddette pratiche possa rientrare in agricoltura. Ebbene, sul punto è intervenuta l’Agenzia delle Entrate[7] che in linea con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità[8] ha chiarito che le attività connesse a quella agricola principale non possono prescindere da una sostanziale “manipolazione” o “trasformazione”[9] [10] dei prodotti agricoli. Alla luce di ciò la semplice conservazione, commercializzazione e valorizzazione, considerate autonomamente, non possono dar luogo ad attività connesse. Tanto si evince anche dalla relazione di accompagnamento al Decreto Ministeriale del 19 marzo 2004 con il quale sono stati individuati i beni che possono essere oggetto delle attività agricole connesse, in cui si afferma che dette attività “(…) prese di per sé singolarmente non possono mai produrre reddito agrario ai 6 sensi dell’articolo 32, comma 2, lettera c) del TUIR, bensì reddito di impresa ai sensi dell’articolo 55 del TUIR (…)”.
Nell’ambito dell’attività vitivinicola il concetto di trasformazione non crea particolari dubbi interpretativi (del resto il vino è un prodotto merceologicamente diverso dall’uva), mentre appare ben più ostico definire il concetto di manipolazione. Sul punto è intervenuta l’Agenzia della Entrate[11] che ha chiarito che possono rientrare nell’ambito della manipolazione del vino le operazioni finalizzate all’aggiunta di conservanti per esigenze igienico – sanitarie del prodotto e le operazioni di filtrazione per garantire la stabilizzazione microbiologica del vino. In buona sostanza, in virtù dei chiarimenti forniti, la vendita di vino acquistato da soggetti terzi in misura non prevalente può rientrare nell’ambito delle attività connesse, purché lo stesso sia previamente assoggettato a lavorazioni idonee a concretizzare un processo di manipolazione.
Come sopra già precisato, con la riformulazione dell’art. 32 del TUIR, ad opera della Legge n. 350/2003, è stato superato il riferimento alle attività agricole connesse rientranti “nell’esercizio normale dell’agricoltura secondo la tecnica che lo governa”, sostituito con il requisito della prevalenza e l’individuazione dei beni e delle attività che sono da attrarre nello speciale regime dei redditi agrari. Per effetto di tale riformulazione la nuova disposizione è applicabile anche se la realizzazione di una o più fasi del processo produttivo che fa capo all’imprenditore agricolo è esternalizzata[12]. Ad esempio, quando ci si avvale della cantina di terzi per la vinificazione delle proprie uve.
I prodotti ottenuti dall’attività di trasformazione o manipolazione devono essere elencati in apposito decreto ministeriale[13] che contempla tra i prodotti agricoli che possono rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 32, comma 2 lett. c) del TUIR, la produzione di vini (01.21.0 – 11.02.1 – 11.02.2)”, nonché i beni che derivano dall’attività di manipolazione dei prodotti dell’attività agricola principale di coltivazioni di uve (01.21)[14].
Come statuito dallo stesso art. 2135 c.c. così come richiamato dall’art. 32 del TUIR, al fine di poter rientrare nell’ambito delle attività agricole connesse la manipolazione o la trasformazione di prodotti agricoli di terzi deve rispettare il requisito della “prevalenza”. Ciò significa che nell’ambito dell’attività connessa i prodotti acquistati non devono mai essere prevalenti rispetto a quelli derivanti dall’attività agricola principale di coltivazione, allevamento e silvicoltura.
L’utilizzo di prodotti acquistati presso terzi è ammesso per migliorare la qualità del prodotto finale al fine di aumentare la redditività complessiva dell’impresa agricola[15]; è il caso, quest’ultimo, dell’imprenditore vitivinicolo che acquista vino da taglio presso terzi per migliorare la qualità del proprio prodotto. Inoltre, l’acquisto di prodotti di terzi può essere finalizzato anche ad un miglioramento della gamma dei beni complessivamente offerti dall’impresa agricola, sempreché i beni acquistati siano riconducibili al comparto produttivo in cui opera l’imprenditore agricolo (allevamento, ortofrutta, viticoltura, floricoltura e simili)[16]. Ad esempio, è ammissibile l’acquisto di uve bianche da terzi per ottenere vino bianco effettuato da un imprenditore che produce vino rosso da uve rosse prodotte direttamente[17]. Al contrario non potrà rientrare nel novero delle attività agricole connesse l’acquisto da parte di un viticoltore di latte di terzi per la produzione di formaggio.
Come chiarito dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare 44/E del 2004, per verificare la sussistenza del requisito della prevalenza è necessario effettuare un confronto quantitativo fra i prodotti agricoli ottenuti dall’attività agricola principale con i prodotti acquistati da terzi. Se, invece, i beni non sono omogenei, il criterio più idoneo è quello del valore (ad esempio, mele con pere, pomodori con cipolle).
In merito al criterio da adottare per la determinazione della prevalenza è estremamente importante quanto stabilito dalla Corte di Cassazione[18] che ha offerto un’interpretazione estremamente tassativa del terzo comma dell’art. 2135 del Codice Civile. La pronuncia riguarda il caso di un’azienda vinicola che produceva vino utilizzando uva “di pregio”, coltivata sul proprio fondo, ma tagliata con un quantitativo di uva di minor pregio, acquistata presso terzi. L’uva di “minor pregio” era impiegata nella produzione del vino in quantitativi maggiori rispetto a quella “più pregiata” che l’azienda coltivava sul proprio fondo. Ebbene la corte di Cassazione ha chiarito che a prescindere dalla “qualità” delle uve e dalla conseguente disparità di valore, in presenza di prodotti omogenei il criterio da adottare per la misurazione della prevalenza è quello quantitativo; pertanto nel caso in esame la vendita di vino prodotto con uve di terzi non poteva rientrare nell’ambito delle attività agricole connesse.
La misurazione della prevalenza non è solo una questione di unità di misura poiché occorre altresì verificare che i prodotti oggetto di comparazione siano effettivamente destinati alla trasformazione per la vendita. Ad esempio, se società Alfa produce 1.000 ql di uve conferite direttamente in cooperativa e acquista 500 ql di uve di terzi che manipola e trasforma per la vendita, la prevalenza non sarà rispettata e l’intero quantitativo di vino prodotto rientrerà nel puro commercio. Per quanto concerne il momento in cui effettuare la comparazione, occorre precisare che la stessa andrebbe effettuata fra i prodotti oggetto di trasformazione (in linea generale prodotti primari, ad esempio uve con uve). La deduzione è che la misurazione della prevalenza non si ottiene confrontando i prezzi di vendita, ma la quantità di prodotti impiegati nel processo di trasformazione/manipolazione oppure, nel caso di confronto a valore, occorre tenere in considerazioni il valore dei beni acquistati e il valore normale di quelli prodotti in azienda.
Per quanto, invece, concerne il periodo in relazione al quale verificare la prevalenza si ritiene che la stessa debba essere determinata tenendo conto dei processi portati a termine nell’esercizio (coincidente di solito con l’anno solare). Una volta che il bene ha acquisito la qualifica “agricola”, sia esso un prodotto primario o derivante dall’attività connessa, lo stesso la mantiene anche nei periodi di imposta successivi, quindi non sarà necessario venderlo nell’esercizio in cui è stato generato. Tuttavia, si ritiene che, in talune ipotesi, anche il momento della cessione sia rilevante per quanto concerne la sussistenza della prevalenza, in considerazione del fatto che il regime di connessione deve sussistere al momento in cui il prodotto di terzi viene ceduto.
Pensiamo, ad esempio, ad un produttore di vino rosso che acquista uve di terzi da trasformare in vino bianco per il miglioramento della gamma. In questa ipotesi, al fine di rispettare il parametro della prevalenza, è auspicabile che il vino bianco sia ceduto nello stesso esercizio in cui procede alla vendita del vino rosso autoprodotto. È, infatti, con la cessione dei beni manipolati o trasformati che si concretizza l’attività connessa (fase realizzativa) ed è importante che in tale momento il prodotto primario con cui effettuare la comparazione sia già stato prodotto, manipolato o trasformato.
In merito al requisito della prevalenza l’Agenzia delle Entrate ha concesso un’importante apertura ed ha chiarito che nel caso in cui non sia soddisfatta la condizione della prevalenza, occorre distinguere il caso in cui l’attività connessa ha ad oggetto beni che rientrano fra quelli elencati nel decreto ministeriale dal caso in cui detta attività riguardi beni diversi da questi ultimi. Nella prima ipotesi, infatti, può trovare applicazione la cosiddetta “franchigia”, in base alla quale possono essere qualificati come redditi agrari, ai sensi dell’articolo 32 del TUIR, i redditi rivenienti dall’attività di trasformazione dei prodotti agricoli nei limiti del doppio delle quantità prodotte in proprio dall’imprenditore agricolo (o, nel caso di acquisti per un miglioramento della gamma, nei limiti del doppio del valore normale delle medesime). I redditi ottenuti dalla trasformazione delle quantità eccedenti saranno determinati analiticamente, ai sensi dell’articolo 56 del TUIR[19]. Ad esempio, presupponendo che da un kg di uva si ricava una bottiglia di vino, se un imprenditore vitivinicolo produce 100.000 kg di uve e ne acquista 150.000 kg, rientreranno nella determinazione catastale del reddito 200.000 bottiglie di vino, ossia il doppio di quelle che si sarebbero potute ricavare dalla produzione primaria.
Per completezza espositiva, occorre ricordare che seppur effettuate nei limiti della prevalenza le attività di trasformazione di prodotti diversi da quelli indicati nel citato decreto ministeriale non possono rientrare nella determinazione catastale del reddito, ma saranno assoggettate al regime di tassazione di cui all’art. 56-bis, comma 2 del TUIR[20] che consente una tassazione forfettaria nella misura del 15%.
Sul punto l’Agenzia delle Entrate[21] ha chiarito che devono, in particolare, ritenersi escluse dall’ambito di applicazione dell’articolo 56-bis citato le attività di trasformazione non usualmente esercitate nell’ambito dell’attività agricola che intervengono in una fase successiva a quella che ha originato i beni elencati nel decreto ministeriale, atte a trasformare ulteriormente questi ultimi beni fino a
realizzare prodotti nuovi che non trovano connessione con l’attività agricola principale ai sensi dell’articolo 2135 del Codice Civile.
Il requisito di connessione nei servizi di vinificazione in conto terzi
Ai sensi di quanto previsto dal terzo comma dell’art. 2135 c.c. sono considerate attività agricole connesse le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata.
Ai fini fiscali l’art. 56-bis, comma 3, del TUIR[22], prevede uno specifico regime forfetario per la determinazione del reddito derivante dalle attività di fornitura di servizi di cui all’art. 2135, comma 3, c.c., consistente nell’applicazione di un coefficiente di redditività del 25% alle operazioni registrate o soggette a registrazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto.
Un combinato normativo importante che consente a numerose aziende vitivinicole di massimizzare l’impiego delle proprie attrezzature, utilizzandole per effettuare servizi in conto terzi senza perdere i requisiti dell’agrarietà.
Presupposto essenziale affinché i servizi in conto terzi possano mantenere la connessione con l’attività agricola principale è il rispetto dei requisiti della “normalità” e della “prevalenza”.
Con riferimento al requisito della “normalità” l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che lo stesso sussiste ogni qual volta le attrezzature siano impiegate in modo sistematico e continuativo nello svolgimento dell’attività agricola principale, in modo tale che quest’ultima non perda il suo carattere di essenzialità. Da ciò consegue che la fornitura di servizi da parte dell’imprenditore agricolo, per poter rientrare fra le attività connesse, non deve assumere per dimensione, organizzazione di capitali e risorse umane, la connotazione di attività principale; in tal senso le attrezzature agricole, così come le altre risorse dell’azienda, non devono essere impiegate nell’attività connessa in misura prevalente rispetto all’utilizzo operato nell’attività agricola di coltivazione del fondo, del bosco o di allevamento [23].
Nell’ipotesi in cui venga rispettato il requisito della “normalità” i servizi in agricoltura si considerano sempre connessi. A diverse conclusioni si deve giungere nell’ipotesi in cui vengano impiegate anche attrezzature non normalmente impiegate nell’esercizio dell’attività agricola esercitata. Infatti, in tal caso è necessario verificare il requisito della prevalenza che alla luce dei chiarimenti forniti dall’Amministrazione, può considerarsi rispettato se il fatturato derivante dall’impiego delle attrezzature normalmente impiegate nell’attività agricola principale è superiore al fatturato ottenuto attraverso l’utilizzo delle altre attrezzature[24].
La circolare 44/E del 2004 appare chiara nel definire i concetti di “normalità” e “prevalenza”, tuttavia il predetto documento di prassi crea non pochi dubbi interpretativi per quanto concerne l’interpretazione offerta dall’Agenzia in merito alla locuzione normativa riportata nel terzo comma dell’art. 2135 c.c. secondo cui la fornitura di beni e le prestazioni di servizi dovrebbero essere svolte mediante attrezzature e risorse “impiegate nell’attività agricola esercitata”.
Ebbene l’Agenzia interpreta il concetto di “attività agricola esercitata” in senso estremamente restrittivo, precisando che le attrezzature utilizzate nei servizi in conto terzi devono essere quelle impiegate nell’attività agricola principale. Ciò emerge chiaramente dal paragrafo 2. della circolare 44/E del 2002 in cui è ripotato quanto segue: “Analogo criterio è stabilito per la qualificazione come attività connesse delle attività di fornitura a terzi di beni o servizi, le quali, oltre a soddisfare il requisito soggettivo stabilito per le imprese di trasformazione, devono utilizzare «prevalentemente» attrezzature o risorse dell’azienda “normalmente” impiegate nell’attività agricola principale.”.
La problematica non è di poco conto, poiché se si dovesse accedere ad una siffatta interpretazione significherebbe che ogni qual volta i servizi vengano svolti con l’impiego di macchine utilizzate nell’ambito delle attività agricole connesse ci potremmo trovare al cospetto di servizi di natura extra agricola che non solo non potrebbero rientrare nel regime di determinazione forfettario del reddito di cui all’art. 56-bis del TUIR (25%), ma sarebbero anche in grado di inficiare il requisito dell’esercizio esclusivo delle attività agricole.
Alla luce di ciò, potrebbe essere negato l’inquadramento nell’ambito delle attività agricole connesse a quei servizi che, seppur svolti nei limiti della prevalenza e della normalità, vengono effettuati utilizzando attrezzature che non sono funzionali all’esercizio dell’attività di coltivazione/allevamento/silvicoltura ma, ad esempio, sono utilizzati nell’attività connessa di trasformazione dei propri prodotti agricoli. È il caso, ad esempio, di un impianto di vinificazione perfettamente dimensionato per lavorare le uve proprie (nel pieno rispetto del requisito della normalità) che viene altresì utilizzato anche per la lavorazione delle uve in conto terzi.
Questa interpretazione, seppur da tenere necessariamente in considerazione, non può essere ritenuta condivisibile, poiché travalica il dettato normativo. Infatti, dal tenore letterale del comma 3 dell’art. 2135 c.c. appare chiaro come il legislatore, con la generica locuzione “attività agricola esercitata”, si sia voluto riferire all’intera attività agricola svolta dall’imprenditore, necessariamente comprensiva anche delle attività agricole connesse. Alle medesime conclusioni si dovrebbe giungere anche seguendo un criterio interpretativo di ordine logico sistematico, infatti, il comma 1 dell’art. 2135 c.c. annovera fra le attività agricole, oltre la coltivazione, l’allevamento e la silvicoltura, anche le attività agricole connesse.
Al di là del tenore letterale della norma e al criterio logico/sistematico, le regole su cui si basa l’interpretazione della legge impongono di indagare anche l’intenzione del legislatore. Ebbene, se la ratio sottesa all’inserimento dei servizi fra le attività agricole connesse è quella di consentire all’imprenditore agricolo di sfruttare al meglio gli investimenti necessari per lo svolgimento della propria attività, non si comprende per quale motivo si dovrebbero escludere dai servizi esercitabili per conto terzi le attrezzature volte a completare il ciclo della propria produzione agricola, ovviamente sempre nel rispetto dei requisiti della “normalità” e della “prevalenza”.
[1] “Per “normalità” si intendeva quello che la maggior parte degli agricoltori faceva di solito, ossia quello che faceva l’agricoltore ordinariamente in una determinata zona (Cass. S.U. 10 ottobre 1955 n. 2451). Il concetto di “normalità” si configurava quindi, sul piano giuridico, più propriamente come “tipicità”. È normale ciò che è tipico nell’organizzazione dell’impresa, non quello che l’imprenditore intende di suo arbitrio fare.”. G. Galloni, Lezioni sul diritto dell’impresa agricola, Napoli 1980, p. 195.1 G. Galloni, Lezioni sul diritto dell’impresa agricola, Napoli 1980, p. 195.
[2] “Detta modifica deve essere infatti interpretata come espressione dell’intento del legislatore di superare una nozione “fondiaria” dell’agricoltura, basata esclusivamente sulla centralità dell’elemento territoriale, e di sostituirla quindi con una più dinamica ed in linea con la diversa realtà tecnico – economica, in cui assumano valore prevalente quelle strutture produttive che si possono avvalere della terra come uno strumento di supporto”. (Cassazione civile, sez. I del 10 dicembre 2010, n. 24995)
[3] La natura agricola non è esclusa dall’esistenza di rilevanti parametri di natura quantitativa, non più incompatibili con la nuova formulazione dell’art. 2135 c.c., onde la dimensione dell’impresa, la complessità della organizzazione, la consistenza degli investimenti e l’ampiezza del volume d’affari non sono di per sé automaticamente incompatibili con la natura solo agricola dell’impresa (Cass. 10 dicembre 2010, n.24995; Cass. 16 gennaio 2018, n. 831).
[4] Art. 2135 Codice Civile: “E’ imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.
Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.
Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché’ le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge.”
[5] Art. 32 del TUIR: “Il reddito agrario è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati, nei limiti della potenzialità del terreno, nell’esercizio di attività agricole su di esso.
Sono considerate attività agricole:
- a) le attività dirette alla coltivazione del terreno e alla silvicoltura;
- b) l’allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno e le attività dirette alla produzione di vegetali tramite l’utilizzo di strutture fisse o mobili, anche provvisorie, se la superficie adibita alla produzione non eccede il doppio di quella del terreno su cui la produzione stessa insiste;
- c) le attività di cui al terzo comma dell’articolo 2135 del codice civile, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, ancorché non svolte sul terreno, di prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, con riferimento ai beni individuati, ogni due anni e tenuto conto dei criteri di cui al comma 1, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze su proposta del Ministro delle politiche agricole e forestali.
Con decreto del Ministro delle finanze, di concerto con il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, è stabilito per ciascuna specie animale il numero dei capi che rientra nei limiti di cui alla lettera b) del comma 2, tenuto conto della potenzialità produttiva dei terreni e delle unità foraggere occorrenti a seconda della specie allevata.
Non si considerano produttivi di reddito agrario i terreni indicati nel comma 2 dell’art. 24.”.
[6] Ministero dell’Economia e delle Finanze, Decreto 13 febbraio 2015.
[7] Agenzia Entrate, Circolare 44/E del 2004.
[8] Cassazione, Sentenze n. 18828/2017, n. 18488/2004 e n. 7238/2015
[9] Al fine di offrire una definizione esaustiva del concetto di “trasformazione” e di “manipolazione”, occorre fare riferimento alle precisazioni fornite dal Ministero con la Circolare n. 351690 del 1955:
– Manipolazione: un prodotto può considerarsi manipolato quando, nonostante le lavorazioni subite, conserva le sue qualità merceologiche originali. Ad esempio la cernita, l’essiccamento e l’imbottamento delle foglie di tabacco”
– Trasformazione: l’attività di trasformazione è qualificabile come un procedimento industriale attraverso il quale da un prodotto ne ricavo un altro merceologicamente diverso. Il prodotto derivante dalla trasformazione deve avere un diverso codice doganale rispetto a quello originario.
[10] “In merito è opportuno evidenziare che si ha trasformazione quando il prodotto originario, per effetto della lavorazione, viene a perdere i caratteri merceologici che lo distinguono (ad esempio nel caso dei cereali utilizzati per produrre farine o delle olive con cui viene prodotto l’olio). Si ha, invece, manipolazione quando il prodotto, nonostante le lavorazioni subite, abbia conservato le sue qualità merceologiche originarie (ad esempio pulitura e confezionamento di verdure e frutta).” Cassazione, Sentenza n. 8128/2016.
[11]Agenzia delle Entrate nota del 12 gennaio 2009.
[12] Agenzia Entrate, Circolare 44/E del 2004.
[13] Attualmente è vigente il D.M. 13 febbraio 2015.
[14] Per le attività dirette alla manipolazione e trasformazione di prodotti diversi da quelli elencati nel decreto ministeriale, sempre nel rispetto dei limiti della prevalenza, è stato introdotto un regime forfetario, disciplinato dall’articolo 56-bis, comma 2, del TUIR, in base al quale la determinazione del reddito viene effettuata applicando all’ammontare dei corrispettivi registrati ai fini dell’imposta sul valore aggiunto il coefficiente del 15%. Come chiarito dalla Circolare 44/E del 2004, devono ritenersi escluse dall’ambito di applicazione dell’articolo 56-bis le attività di trasformazione non usualmente esercitate nell’ambito dell’attività agricola che intervengono in una fase successiva a quella che ha originato i beni elencati nel Decreto Ministeriale, atte a trasformare ulteriormente questi ultimi beni fino a realizzare prodotti nuovi che non trovano connessione con l’attività agricola principale ai sensi dell’articolo 2135 del Codice Civile.
[15] Agenzia Entrate, Circolare 44/E 2002.
[16] L’aumento di gamma è consentito solo se riguarda beni appartenenti allo stesso comparto agronomico (Circolari n. 44/E/2002 e n. 44/E/2004; Cassazione, Sentenza n. 18071/2017; Consiglio di Stato, Sentenza n. 4441/2018).
[17] Agenzia Entrate, circolare 44/E 2004.
[18] Corte di Cassazione Ordinanza 18071/2017.
[19] Agenzia Entrate, circolare 44/E del 2004.
[20]Art. 56-bis, comma 2, TUIR: “Per le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, valorizzazione e commercializzazione di prodotti diversi da quelli indicati nell’articolo 32, comma 2, lettera c), ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, il reddito è determinato applicando all’ammontare dei corrispettivi delle operazioni registrate o soggette a registrazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, conseguiti con tali attività, il coefficiente di redditività del 15 per cento.”
[21] Agenzia Entrate, circolare 44/ del 2004.
[22] Art. 56-bis, comma 3, TUIR: “Per le attività dirette alla fornitura di servizi di cui al terzo comma dell’articolo 2135 del codice civile, il reddito è determinato applicando all’ammontare dei corrispettivi delle operazioni registrate o soggette a registrazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, conseguiti con tali attività, il coefficiente di redditività del 25 per cento.”
[23] Agenzia Entrate, circolare 44/E del 2002.
[24] Agenzia Entrate, circolare 44/E del 2004.