
13 Giu LA CASSAZIONE METTE UN FRENO ALLA RIQUALIFICAZIONE DEL CONTORATTO DI SOCCIDA
Il contratto di soccida è ancora una volta sotto la lente del fisco tanto che, ogni qual volta il soccidario vende la propria quota di accrescimenti al soccidante, l’Agenzia tende a riqualificare il rapporto in soccida monetizzata.
Le conseguenze derivanti da questo tipo di contestazioni possono essere molto gravi poiché, come chiarito dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 504929 del 1973, l’equivalente in denaro versato dal soccidante al soccidario nell’ambito di un contratto di soccida monetizzata non è soggetto ad IVA e il soccidario perde il diritto alla detrazione previsto dall’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 (Sez. 5, 10 aprile 2013, n. 8727; conf. Sez. 5, 15 luglio 2015, n. 14791, conf. 04 maggio 2021, n. 11592).
Quanto affermato dall’Agenzia non può essere ritenuto corretto, ma soprattutto non può sfociare nel generico principio secondo cui la fatturazione al soccidante degli animali di spettanza del soccidario legittima la riqualificazione del rapporto in una soccida monetizzata.
Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la recentissima Ordinanza n. 15764/2023, ha accolto il ricorso del contribuente ponendo un freno all’attività di accertamento.
Per comprendere appieno la portata interpretativa del pronunciamento non si può prescindere dalle circostanze di fatto che hanno caratterizzato il procedimento di merito, il quale veniva instaurato dal contribuente al fine di contestare il diniego al rimborso IVA opposto dall’Agenzia.
Il punto nodale di tutta questa vicenda sono le motivazioni a fondamento del diniego al rimborso, secondo cui, nonostante il soccidario avesse regolarmente fatturato la propria quota di accrescimenti (uova) al soccidante, le parti avrebbero in realtà inteso optare per la monetizzazione. L’intero impianto accusatorio verteva sul fatto che nel contratto di soccida era stata inserita una clausola, certamente poco chiara, in virtù della quale le parti, in prima istanza, optavamo per la monetizzazione, lasciando però la possibilità al soccidario di vendere la propria quota di animali al soccidante.
Ebbene, i Giudici della CTR dell’Umbria, nell’accogliere la tesi dell’Agenzia, evidenziavano come dal contratto di soccida emergesse il fatto che i contraenti avevano inteso privilegiare la monetizzazione rispetto all’effettiva ripartizione delle utilità (uova) e ciò sarebbe stato sufficiente a legittimare la riqualificazione del rapporto in soccida monetizzata, con la conseguente indetraibilità dell’imposta in capo al soccidario.
La Corte di Cassazione ha censurato in maniera netta le conclusioni della CTR umbra precisando “che la circostanza che l’attività di allevamento sia svolta mediante il contratto di soccida semplice comporta che entrambi i partecipanti dell’impresa (soccidante e soccidario) siano contitolari dell’impresa di allevamento e, quindi, che siano entrambi imprenditori agricoli. Alla luce di ciò, non assume rilievo la circostanza per cui, in forza del contratto di soccida, sia prevista la monetizzazione della percentuale di accrescimento spettante al soccidario, posto che tale profilo attiene ai rapporti interni tra gli associati e non all’attività d’impresa agricola, sicché essa integra un indice estraneo e non pertinente ai fini della qualificazione dell’attività del soccidario”.
Sulla base di quanto espresso dalla Corte di Cassazione ritengo di potere affermare che, al cospetto di comportamenti delle parti da cui emerga in maniera chiara l’intenzione di ripartire gli accrescimenti con conseguente vendita degli animali al soccidante, l’Agenzia non possa legittimamente riqualificare il contratto di soccida.
A conclusioni diametralmente opposte, conclude la Corte di Cassazione, si dovrebbe giungere nel caso in cui le parti avessero realmente optato per la monetizzazione, circostanza che si risolverebbe in una mera liquidazione di utili che non legittimerebbe in alcun modo il diritto alla detrazione in capo al soccidario.
La suprema Corte conferma ancora una volta l’importanza di una corretta gestione del contratto associativo: una volta individuati gli accrescimenti, l’effettiva divisione degli animali o delle utilità rappresenta l’aspetto nodale della problematica in esame. Infatti, è solo in mancanza di una effettiva e concreta ripartizione che l’Agenzia potrebbe contestare la monetizzazione e, conseguentemente, disconoscere l’assoggettamento ad IVA della vendita degli animali da parte del soccidario. Infatti, nel caso in cui gli animali venissero ritirati nella loro interezza dal soccidante e la ripartizione degli accrescimenti fosse ridotta ad una mera operazione contabile (ad esempio: valorizzazione dei Kg di carne spettanti al soccidario), l’Agenzia avrebbe gioco facile nel contestare una mera attribuzione di utili e il conseguente recupero dell’IVA.