IL SOCCIDANTE CHE MONETIZZA E’ PROPRIETARIO DEL BESTIAME

di Vanni Fusconi, Giorgio Gavelli - Pubblicato sul Sole 24 ore il 23.09.2024

La risposta 134/2024 dell’agenzia delle Entrate non cessa di far discutere gli addetti ai lavori. Essa ha avuto il pregio di offrire un inquadramento organico della disciplina Iva della soccida semplice, un contratto fondamentale per il settore dell’allevamento che rappresenta l’ultimo contratto associativo tipicizzato del nostro ordinamento.

Nella soccida, in base agli articoli 2170 e seguenti del Codice civile, il soccidante e il soccidario si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano; accrescimento che consiste tanto nei parti sopravvenuti, quanto nel maggior valore intrinseco del bestiame al termine del contratto.

Nella pratica, la soccida consente al soccidante e al soccidario di svolgere in comune l’attività di allevamento per poi ripartire, a titolo originario, gli accrescimenti e/o i frutti che derivano dalla conduzione associata. Una peculiarità che ha un impatto rilevante ai fini fiscali, poiché gli animali attribuiti all’una o all’altra parte possono essere considerati come frutto dell’attività agricola principale e fruire della disciplina di determinazione del reddito su base catastale (articolo 32 e articolo 56, comma 5, del Tuir) e del regime speciale Iva (articolo 34, Dpr 633/72).

Il nodo della monetizzazione

Uno degli aspetti maggiormente interessanti affrontati dall’Agenzia è quello della soccida monetizzata, in cui gli animali vengono ritirati interamente dal soccidante che provvede alla vendita e liquida al soccidario una somma di denaro. La quota spettante al soccidario (cosiddetta “monetizzazione”) assume la natura di utile e, in quanto tale, non è soggetta a Iva, precludendo al soccidario il diritto alla detrazione specifica dell’imposta. Questa fattispecie, trattata dall’amministrazione finanziaria con la risoluzione 504929/1973, ha creato dubbi interpretativi, poiché ogni qual volta il soccidario fatturava la propria quota di animali al soccidante vi era il rischio di veder riqualificato il rapporto in soccida monetizzata, con conseguente recupero dell’Iva.

La Cassazione è intervenuta sul punto con la recente ordinanza 15764/2023, accogliendo il ricorso del contribuente e stabilendo che per riqualificare il rapporto in soccida monetizzata non è sufficiente il fatto che l’accordo fra le parti preveda la monetizzazione degli accrescimenti, poiché la vendita – e quindi la fatturazione degli animali – è una possibilità che rientra nell’autonomia contrattuale.

Vendita e fatturazione

In linea con quanto già anticipato su queste pagine (si veda Il Sole 24 Ore del 19 giugno 2023 e dell’11 dicembre 2023), con la risposta 134/2024 l’Agenzia chiarisce che per dare fondamento giuridico alla vendita della propria quota di bestiame da parte del soccidario e alla conseguente fatturazione è importante che ciò trovi riscontro nel contratto di soccida e, soprattutto, nel comportamento tenuto in sede di esecuzione del rapporto associativo. È quindi necessario che gli accrescimenti siano effettivamente divisi fra le parti, previa restituzione al soccidante di una quota di animali corrispondente a quella originariamente conferita.

Se così non fosse non verrebbe meno la titolarità del bestiame in capo al soccidante che – a norma dell’articolo 2171 del Codice civile – permane in capo a lui per tutta la durata dell’allevamento: circostanza che si verifica per l’appunto nel caso della “vera” soccida monetizzata, in cui è il soccidante a ritirare l’intero quantitativo di bestiame, provvedendo direttamente alla vendita.

Alla luce di ciò si ritiene che in quest’ultima ipotesi il soccidante sia legittimato a considerare l’intero quantitativo di animali nella sua disponibilità a titolo originario potendo, quindi, legittimamente fruire del regime fiscale proprio dell’attività agricola principale (articolo 32 del Tuir e articolo 34 del decreto Iva). Del resto, in un’ottica di coerenza e organicità, se in caso di mancata divisione degli animali si vuole negare al soccidario la possibilità di fatturare la propria quota di accrescimenti (con conseguenti problemi ai fini della detrazione, si vedano le pronunce della Cassazione 11592/2021, 8727/2013, 27715/2013 e 21491/2005), occorre riconoscere l’intera titolarità degli animali in capo al soccidante a titolo originario.