I LIMITI DELLA VENDITA DIRETTA POSSONO INFICIARE L’ESERCIZIO ESCLUSIVO DELLE ATTIVITA’ AGRICOLE

di Vanni Fusconi, centro studi ConsulenzaAgricola.it

Una problematica poco dibattuta, ma di fondamentale importanza per il settore agricolo, è quella che riguarda l’individuazione precisa delle tipologie di prodotti che un imprenditore agricolo può vendere nei limiti della vendita diretta, senza soggiacere alle norme proprie del commercio al dettaglio di cui al D.Lgs. 114/1998.
L’art. 4 del D.Lgs. 228/2001 stabilisce che nell’ambito della vendita diretta debba essere rispettata la prevalenza dei prodotti agricoli e alimentari provenienti dall’azienda agricola rispetto a quelli acquistati da altri imprenditori agricoli. I ricavi relativi alla vendita dei prodotti provenienti da soggetti terzi non devono aver superato, nell’anno solare precedente, l’importo di 160.000 euro per le imprese individuali e di 4.000.000 di euro per le società. In merito a tale requisito, il Consiglio di Stato, con la Sentenza n. 4441/2018, ha chiarito che il criterio della prevalenza debba sussistere anche qualora l’azienda agricola rimanga al di sotto della soglia di fatturato sopra descritta.
Con la Legge di Stabilità per il 2019 (Legge n. 145/2018), è stata introdotta un’importante modifica al regime della vendita diretta, ammettendo la possibilità, per l’imprenditore agricolo, di commercializzare anche prodotti agricoli e alimentari appartenenti a comparti agronomici diversi dal proprio, a condizione che tali beni vengano acquistati direttamente da altre imprese agricole e che il fatturato riconducibile alla rivendita di tali prodotti sia comunque inferiore al fatturato realizzato con la vendita dei propri.
In buona sostanza, l’art. 4 del D.Lgs. 228/2001 è finalizzato a promuovere la vendita dei prodotti derivanti dall’attività agricola principale e proprio al fine di offrire a tali prodotti una migliore visibilità e appetibilità, entro determinati limiti, è consentita anche la vendita di prodotti agricoli di terzi.
Tutto molto chiaro e coerente, ma il vero problema nasce quando per poter commercializzare i propri prodotti l’agricoltore deve necessariamente vendere anche prodotti non agricoli.
Si pensi, ad esempio, ai florovivaisti che, oltre alla vendita di piante derivanti dall’attività di coltivazione, devono necessariamente commercializzare anche materiale per il giardinaggio, come ad esempio vasi, rastrelli, concimi e tutti quei materiali accessori alla cura della pianta.
Non ci troviamo al cospetto di una problematica esclusivamente “autorizzativa”, poiché l’art. 4 del D.Lgs. 228 del 2001 e i limiti in esso stabiliti sono essenziali anche al fine di delimitare i confini del requisito dell’esercizio esclusivo delle attività agricole, presupposto essenziale per tutte le società agricole al fine di accedere ai benefici contributivi e per l’imposizione indiretta (acquisto fondo rustico con agevolazioni PPC).
Il Consiglio di Stato, con la Sentenza n. 131 del 18 gennaio 2016, ha fatto chiarezza sul punto, introducendo un nuovo criterio per determinare l’ambito applicativo della vendita diretta: la stretta connessione.
I Giudici hanno svolto, in prima battuta, un’analisi puramente teorica dei contenuti dell’art. 2135 c.c., secondo cui all’imprenditore agricolo è concesso di svolgere non solo le attività tipiche di coltivazione, allevamento e silvicoltura, ma anche tutte quelle attività considerate agricole per connessione, tra cui la commercializzazione di prodotti.
In seguito, sono stati messi in relazione i nuovi contenuti della figura dell’imprenditore agricolo con quanto riportato dal combinato disposto dei commi 1 e 5 dell’art. 4 del D. Lgs. n. 228 del 2001, per i quali gli imprenditori agricoli possono vendere direttamente al dettaglio prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende (comma 1), nonché prodotti derivati, ottenuti a seguito di quelle attività di manipolazione o trasformazione di prodotti agricoli e zootecnici finalizzate al completo sfruttamento del ciclo produttivo dell’impresa (comma 5).

L’iter logico seguito dai Giudici ha portato a concludere che è ammessa anche la vendita di beni che l’imprenditore non produce né può produrre nella propria azienda, purché essi restino strettamente connessi con la propria attività.
Nella Sentenza si legge, infatti, che la normativa civilistica e la disciplina della vendita diretta vanno intese nell’ottica di “un’ampia liberalizzazione del commercio dei propri prodotti da parte delle aziende agricole, sia nella forma più semplice del fiore, del frutto o della pianta, ma anche in quella più complessa della loro manipolazione oppure di beni a questa connessi, fatto che può inevitabilmente comprendere cose non direttamente derivanti dall’agricoltura ma ad essa strettamente connesse come vasi, strumenti di irrigazione, concimi, insetticidi o strumenti per l’immediato utilizzo della terra come rastrelli o vanghe… Appare però evidente che la commercializzazione dei prodotti agricoli o florovivaistici oppure la fornitura di beni connessi a queste attività deve rispettare le stesse regole che la ammettono, così come quelle attinenti altre attività, come quella prettamente commerciale”.
Pare evidente, dunque, che di fronte alla vendita di prodotti accessori o funzionali alle attività svolte dall’imprenditore agricolo, per poter applicare le disposizioni dell’art. 4 del D.Lgs. 228/2004, bisogna valutare l’esistenza o meno di una connessione.
Anche se il Consiglio di Stato non definisce con chiarezza cosa si intenda per stretta connessione, tale concetto può essere delimitato in tutti quei beni necessari per fornire al cliente un servizio completo connesso con la cessione di prodotti dell’agricoltura.
Così, nel caso del florovivaista che fornisce beni (vasi, rastrelli, vanghe, ecc.), anche se non di sua produzione, per la costruzione di un giardino, tali prodotti finiscono per entrare in stretta connessione con l’opera eseguita.
Allo stesso modo, è evidente che i prodotti acquistati per aumentare la gamma dell’offerta non possano andare oltre quella che è l’attività effettivamente svolta (comparto produttivo). Quindi, non potrà riconoscersi la stretta connessione quando lo stesso florovivaista fornisce al cliente i beni e gli strumenti che solamente in senso estremamente lato possono avvicinarsi al giardinaggio, come barbecue, graticole, sedie e tavoli in vimini o plastica, casette in legno prefabbricate ecc.
Il criterio della stretta connessione era già stato in precedenza anticipato anche dal MISE, pur se in termini più velati, che, con la Risoluzione n. 264073 del 31 dicembre 2012, aveva chiarito che rientrano nell’attività di vendita al dettaglio non solo i prodotti derivanti da attività non strettamente connesse alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti agricoli ottenuti prevalentemente dal proprio fondo, ma anche i prodotti derivanti da attività collegate al settore agricolo.
Già prima dell’intervento del Consiglio di Stato, quindi, era stata concessa la possibilità di mettere in vendita tutti quei beni considerati strettamente connessi a quelli prodotti dall’azienda agricola, anche se non provenienti specificatamente dal settore agricolo.
A nostro parere, il criterio della connessione individuato dal Consiglio di Stato è quello maggiormente rappresentativo della volontà del Legislatore che ha inteso permettere agli operatori del settore agricolo di ampliare la gamma dei prodotti venduti al fine di implementare la vendita dei prodotti derivanti dall’attività agricola principale.
Alla luce di tali considerazioni, è auspicabile un intervento normativo o, al minimo, uno sforzo interpretativo da parte del Ministero, volto a recepire l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato, poiché è impensabile che una società semplice agricola per poter vendere prodotti accessori e necessari alla commercializzazione dei propri prodotti agricoli debba aprire una ulteriore posizione commerciale, senza contare che nelle zone agricole le autorizzazioni per il commercio al dettaglio di cui al D.Lgs. 114/1998 non possono essere rilasciate.