
19 Apr I DUBBI INTERPRETATIVI SULLA COMPARTECIPAZIONE AGRARIA METTONO IN PERICOLO LE SOCIETA’ AGRICOLE
di Vanni Fusconi, centro studi ConsulenzaAgricola.it
Il contratto di compartecipazione agraria è un contratto agrario di tipo associativo che consente di attribuire a “titolo originario” a ciascuna delle parti (compartecipante e compartecipato) una quota del prodotto derivante dallo svolgimento in comune dell’attività agricola di coltivazione.
La possibilità di ripartire il raccolto a titolo originario è estremamente importante, poiché consente di aumentare il plafond della produzione propria e, conseguentemente, incrementare il quantitativo di prodotti acquistati da terzi che, nei limiti della prevalenza ed a seguito di manipolazione o trasformazione, possono essere ricondotti nella determinazione del reddito su base catastale (art. 32 del TUIR).
Siamo, dunque, al cospetto di un istituto in grado di generare rilevanti benefici ma, se ne venisse disconosciuta l’operatività, potrebbero verificarsi conseguenze estremamente penalizzanti per l’azienda. Si pensi, ad esempio, ad una Srl agricola IAP in opzione per la determinazione del reddito su base catastale che, al fine di rispettare il requisito della prevalenza dell’attività agricola principale, ha stipulato contratti di compartecipazione agraria. Ebbene, se la genuinità di tali contratti fosse messa in discussione, la società rischierebbe di perdere tutti i benefici fiscali e contributivi legati al rispetto del requisito dell’esercizio esclusivo delle attività agricole.
Al fine di non incorrere in spiacevoli contestazioni, serve conoscere la natura e i requisiti essenziali di questa forma contrattuale, senza dimenticare che ci troviamo di fronte ad un contratto atipico, quindi non espressamente disciplinato dalla Legge.
Nella compartecipazione agraria, due soggetti si associano per la coltivazione di una coltura stagionale mettendo a fattor comune i fattori produttivi e condividendo il rischio di impresa. Detto contratto ha, pertanto, natura associativa ed è caratterizzato dalla breve durata del rapporto che deve coincidere con il ciclo colturale del prodotto stagionale oggetto di coltivazione.
Quest’ultima caratteristica è di particolare importanza ed è desumibile direttamente dalla Legge n. 203 del 3 maggio 1982. Quest’ultima disposizione, infatti, nel ricondurre tutti i contratti agrari nell’alveo dell’affitto di fondo rustico, ha fatto eccezione esclusivamente per la “compartecipazione limitata a singole coltivazioni stagionali” per le “concessioni per coltivazioni intercalari” o per le “vendite di erbe di durata inferiore ad un anno quando si tratta di terreni non destinati a pascolo permanente ma soggetti a rotazione agraria”.
Il necessario carattere stagionale dei prodotti oggetto di compartecipazione è stato sancito anche dalla Corte di Cassazione con la Sentenza n. 13631 del 22 luglio 2004: “L’art. 56 della L. 203/82 evidenzia che esistono contratti di affitto di fondi rustici, che, sottratti alla disciplina generale dell’affitto, sono sottratti anche alla norma sulla durata e, quindi, possono durare un periodo di tempo (di gran lunga) inferiore a quello previsto e sancito in via generale dall’art. 1 della stessa Legge. […] Caratteristica fondamentale, come rileva la dottrina, è la circostanza che in tutte le ipotesi previste dell’articolo 56, il concedente, negli intervalli di tempo della sua attività produttiva dedicata a certe colture, concede ad altri (o, nel caso della compartecipazione, si accorda per esso con altri) il godimento dei terreni lasciati liberi a far tempo dal momento del precedente raccolto a quello della nuova semina o piantagione.”
Altro requisito essenziale della compartecipazione agraria è il suo carattere associativo, che deve trovare effettivo riscontro nelle risorse che entrambe le parti mettono a disposizione per l’esercizio in comune dell’attività di coltivazione. Pertanto, non può ricondursi ad un contratto di compartecipazione agraria l’ipotesi in cui le spese di coltivazione siano sostenute integralmente dal concedente (seme, concimi, antiparassitari, ecc.) e il compartecipante risulti estraneo alla gestione dell’impresa prestando esclusivamente attività lavorativa manuale. Altra ipotesi in cui può essere messa in discussione la genuinità del contratto si potrebbe verificare nel caso in cui il concedente non partecipi al processo produttivo percependo comunque un corrispettivo. Nella prima ipotesi il rapporto fra le parti potrebbe essere riqualificato in lavoro subordinato, nella seconda ipotesi in un affitto di fondo rustico.
Altro aspetto particolarmente importante è quello della ripartizione del prodotto, che dovrà avvenire in misura proporzionale all’apporto di ciascuna delle parti all’attività di coltivazione svolta in comune.
Se la divisione avviene in campo, le parti ritirano ciascuno la propria quota di prodotto e le successive cessioni saranno rilevanti ai fini IVA, legittimando così il diritto alla detrazione sugli acquisti inerenti all’attività di coltivazione.
Il compartecipante e il compartecipato possono anche stabilire contrattualmente che l’intero raccolto venga interamente venduto da una sola delle parti. A tal fine è necessario che uno dei contraenti, ad esempio il concedente, conferisca al compartecipante il mandato a vendere anche la propria quota di raccolto ai sensi dell’art. 1705 del Codice Civile (mandato senza rappresentanza). Anche in questa ipotesi l’operazione è rilevante ai fini IVA, quindi sarà necessario fatturare i passaggi del prodotto fra le parti.
Un’ulteriore fattispecie che si è diffusa nella pratica, ispirandosi impropriamente ai chiarimenti ministeriali forniti in tema di soccida, è quella della cosiddetta “compartecipazione agraria monetizzata”. In questa ipotesi, una delle parti (molto spesso il compartecipante) senza aver effettuato alcuna ripartizione del prodotto e senza avere ricevuto alcun specifico mandato a vendere, ritira l’intero quantitativo del raccolto per poi liquidare all’altra parte una somma di denaro proporzionale alla quota di frutti ad essa spettante. In tale ipotesi, fra le parti non si genera alcuna cessione imponibile ai fini IVA. Pertanto, il concedente non ha diritto alla detrazione sugli acquisti afferenti l’attività di compartecipazione agraria (indetraibilità specifica).
Per quanto concerne quest’ultima fattispecie, i dubbi interpretativi non riguardano solo l’IVA, ma anche le imposte sul reddito, poiché nel caso di compartecipazione agraria monetizzata, molto spesso colui che ritira l’intero quantitativo di prodotto lo considera attribuito a titolo originario, con riflessi molto importanti per quanto concerne la prevalenza (cfr., supra).
Ancora una volta tale modo di operare è ispirato alle regole che governano la soccida animale, con la differenza che nella compartecipazione agraria l’attribuzione a titolo originario dell’intero raccolto al compartecipante non è sorretta dai medesimi fondamenti logico/giuridici. In altre e più chiare parole, ai sensi di quanto previsto dall’art. 2171 C.C., nella soccida semplice gli animali vengono conferiti dal soccidante e rimangono di sua proprietà fino alla loro divisione al termine del ciclo di allevamento. Ne consegue che se la divisione non avviene e il soccidante ritira tutti i capi, gli stessi continueranno ad essere di sua esclusiva proprietà e potranno essere venduti a titolo originario, mentre al soccidario verrà corrisposta una quota di denaro corrispondente agli utili allo stesso spettanti in funzione dell’attività svolta.
Nella compartecipazione agraria, l’art. 2171 C.C. non trova applicazione, pertanto occorre interrogarsi se, una volta raccolti, i frutti possano o meno essere attribuiti integralmente ad una delle parti a titolo originario.
L’unico documento di prassi che tratta l’argomento è l’ormai risalente Risoluzione del Ministero delle Finanze n. 502890 del 3 gennaio 1974 che, esprimendosi sulle forme di conduzione agricola in compartecipazione, ha chiarito quanto segue: “Analogamente a quanto è stato ammesso per la soccida, che può essere considerato produttore agricolo, ai sensi del citato art. 34 del D.P.R. n. 633, non solo il mezzadro ( o colono) ma anche il concedente e che, peraltro, la veste del contribuente viene assunta solo dal concedente se egli provveda alla vendita dell’ intero prodotto ovvero anche dal mezzadro (o colono) se venda direttamente la parte di sua spettanza. In questa seconda ipotesi, tanto il concedente che il mezzadro devono provvedere distintamente agli adempimenti prescritti dal più volte menzionato D.P.R. n. 633”.
Nella risoluzione in esame, che è sostanzialmente priva di motivazione e risale ad un’epoca addirittura antecedente alla Legge n. 203/82, la compartecipazione agraria viene assimilata alla soccida ed il concedente (colui che mette a disposizione il terreno) viene assimilato al soccidante. Infatti, come avviene per il soccidante nella soccida monetizzata, nel caso in cui sia il concedente a vendere l’intero prodotto, sarà solo quest’ultimo ad assumere la veste di contribuente.
Tale documento di prassi non è certo sufficiente a fare chiarezza su una problematica così complessa e, fra l’altro, non si esprime in merito alla ben più frequente ipotesi in cui sia il compartecipante a ritirare l’intero prodotto.