15 Ott FLOROVIVAISMO: QUANDO L’AGENZIA PUÒ CONTESTARE L’ESERCIZIO DELL’ATTIVITÀ AGRICOLA
di Vanni Fusconi - Pubblicato sulla Rivista n.10 2024 di ConsulenzaAgricola.it
L’attività di florovivaismo è particolarmente attenzionata dall’Agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza, poiché l’imprescindibile commistione fra attività agricola primaria e attività di vendita di piante di terzi può creare innumerevoli criticità. Chi opera in questo settore, infatti, non può limitarsi a vendere esclusivamente le piante coltivate direttamente in azienda, ma deve necessariamente ampliare la gamma dei prodotti offerti al pubblico attraverso l’acquisto di piante da soggetti terzi.
In caso di verifica il primo elemento attenzionato dall’Amministrazione Finanziaria è indubbiamente la presenza di una effettiva attività di coltivazione, elemento imprescindibile per poter qualificare l’attività come agricola e, conseguentemente, accedere al regime fiscale proprio dell’agricoltura disciplinato dall’art. 32 del TUIR.
Ai sensi di quanto previsto dall’art. 2135 c.c. per attività agricola primaria di coltivazione deve intendersi la cura e lo sviluppo del ciclo biologico della pianta o almeno di una fase essenziale del ciclo stesso. Affinché si concretizzi la produzione agricola primaria non è dunque necessario che l’imprenditore si occupi dell’intero ciclo di coltivazione, ma è sufficiente provvedere alla cura di almeno una fase essenziale del ciclo. A tal proposito, si possono ipotizzare le seguenti fasi biologiche essenziali del ciclo produttivo:
- da talea a piantina in vaso (fase biologica dell’attecchimento);
- da piantina a pianta verde (fase biologica vegetativa);
- da pianta verde a pianta fiorita (fase di fioritura).
Appurata l’esistenza dell’attività di coltivazione, i verificatori dovranno poi appurare quali e quante piante acquistate da soggetti terzi possono o meno essere fatte rientrare in agricoltura e, più specificatamente, nella determinazione del reddito su base catastale.
Con riferimento alla “commercializzazione di piante acquistate da terzi”, è importante evidenziare che tale attività non può beneficiare della tassazione catastale[1] se le piante non subiscono alcun tipo di manipolazione o trasformazione (principio derivante dal tenore letterale dell’art. 32 del TUIR e dall’interpretazione offerta dall’Agenzia delle Entrate con il noto documento di prassi, Risoluzione n. 11/E/2018 e Circolare n. 44/E/2004). Inoltre, affinché i prodotti trasformati o manipolati possano essere considerati ai fini di tale regime fiscale agricolo, essi devono derivare prevalentemente dall’attività agricola principale svolta dall’impresa.
A tal proposito l’Agenzia delle Entrate, in risposta ad una Consulenza giuridica (protocollo n. 954/73/2014), ha fornito importantissimi chiarimenti in merito al concetto di attività connesse nel settore del florovivaismo. L’Amministrazione Finanziaria, dopo aver acquisito il parere del Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali (nota del 9 aprile 2015, n. 24856), ha precisato che possono rientrare nel concetto di “manipolazione” delle piante i trattamenti di concimazione, sistemazione del terreno, potatura, svasamento, inserimento di ritenitori idrici, steccatura, ecc.., in quanto, come chiarito dal Ministero, le stesse sono funzionali a garantire la qualità del prodotto finale e rientrano nelle pratiche agronomiche finalizzate alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico delle piante.
Delineato per sommi capi l’inquadramento fiscale ai fini delle imposte dirette dell’attività agricola di produzione e piante e fiori occorre ora interrogarsi su cosa può accadere in caso di verifica fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate o della Guardia di Finanza. In particolare, occorre appurare se l’onere di dimostrare l’esercizio dell’attività agricola primaria e delle attività connesse incombe sul contribuente oppure sull’Amministrazione Finanziaria.
In tema di onere della prova è importante ricordare che l’art. 6 della Legge 31 agosto 2022, n. 130 ha introdotto all’art. 7 del D.Lgs. n. 546/92 il comma 5 bis[2] che può essere così sintetizzato:
- L’amministrazione ha l’obbligo di provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato.
- Il giudice deve fondare la sua decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e può annullare l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
Personalmente ritengo che la disposizione in esame non faccia altro che recepire in ambito tributario quel canone generale contenuto nell’art. 2697 del Codice Civile[3] secondo cui l’onere di provare un fatto ricade su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della propria tesi.[4]
Sulla base dei principi sopra espressi, l’onere di provare il mancato esercizio dell’attività agricola principale o dell’attività agricola connessa di manipolazione delle piante incombe sull’Amministrazione Finanziaria che, fatta eccezione per le ipotesi in cui risulterà applicabile l’accertamento induttivo puro[5], avrà l’onere di dimostrare l’evasione avvalendosi di presunzioni gravi, precise, e concordanti di cui all’art. 39, comma 1, lett. d) (accertamento analitico/induttivo).
Il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza.[6]
La domanda che dobbiamo porci è quali sono gli elementi che potrebbero indurre l’Agenzia a contestare il mancato esercizio dell’attività primaria di coltivazione, oppure l’assenza dell’attività connessa di manipolazione delle piante acquistate da terzi. Nello svolgere tale ragionamento non bisogna dimenticare che l’attività di verifica è quasi sempre relativa ad annualità passate le cui dinamiche vengono ricostruite sulla base di quello che i verificatori percepiscono al momento del sopralluogo.
Per questo motivo è importante che l’attività florovivaistica abbia le caratteristiche tecniche di un’attività agricola di coltivazione e, conseguentemente, l’imprenditore, oltre a disporre di una superficie di coltivazione adeguata, deve essere in possesso di tutte quelle risorse ed attrezzature necessarie allo svolgimento di almeno una fase essenziale del ciclo biologico della pianta. Ad esempio, se in sede di controllo viene appurato che nell’anno di riferimento non sono stati sostenuti costi per l’acquisto di fertilizzanti, terriccio o altro materiale necessario alla coltivazione (ad esempio gasolio agricolo per il riscaldamento delle serre) è probabile che l’Agenzia metta in discussione l’esercizio dell’attività agricola primaria. Infatti, è altamente improbabile che un florovivaista possa provvedere alla cura e allo sviluppo di almeno una fase del ciclo biologico della pianta senza l’ausilio di tali strumenti e risorse.
Inoltre, la presenza di un banco di lavoro per invasare le piante, oppure di contenitori di vario calibro per lo svasamento e invasamento, è sicuramente un altro elemento utile a dimostrare la sussistenza dell’attività agricola.
Alle medesime considerazioni deve giungersi per quanto concerne le attività agricole connesse. Supponiamo, ad esempio, che un’azienda abbia considerato assorbite nel reddito agrario 10.000 piante acquistate da soggetti terzi motivando tale scelta sulla base del fatto che durante il periodo di sosta in serra le stesse sono state manipolate attraverso la somministrazione di fertilizzanti in ossequio a quanto previsto dalla nota del 9 aprile 2015, n. 24856. Ebbene, non occorre essere un fine giurista per capire che nel caso in cui per l’anno di riferimento non vengano riscontrate fatture di acquisto di fertilizzanti l’Amministrazione avrebbe strada facile nel contestare la ripresa a bilancio dei relativi corrispettivi, senza considerare che alle medesime conclusioni si potrebbe giungere anche nel caso in cui in serra non fosse riscontrata la presenza di bancali per la fertirrigazione oppure nel caso fosse appurato l’utilizzo dei predetti bancali solo ai fini espositivi.
Altro elemento determinante al fine di provare il mancato esercizio dell’attività agricola, sia essa primaria o connessa, è il tempo di permanenza in serra delle piante. Sul punto occorre precisare che ad un tempo di permanenza in serra molto lungo non corrisponde necessariamente lo svolgimento di un’attività agricola primaria di coltivazione. Infatti, se la pianta è stata acquistata già “matura”, la permanenza in azienda per un lungo periodo (ad esempio 1 mese) non giustifica in maniera aprioristica la sua coltivazione, poiché al momento dell’acquisto lo sviluppo vegetale era già completo ed è difficile ipotizzare che in un così breve lasso di tempo l’imprenditore abbia potuto curare almeno una fase essenziale del ciclo della pianta. A conclusioni opposte potrebbe giungersi per quanto concerne l’attività di manipolazione, infatti è altamente plausibile che in un mese di permanenza in serra le piante siano state concimate se non altro per mantenerle appetibili per la vendita.
Il tempo di permanenza in serra della pianta (individuabile attraverso il confronto fra la data di acquisto e di vendita) rappresenta un elemento essenziale al fine di poter valutare se effettivamente è stata svolta un’attività agricola primaria di coltivazione oppure un’attività connessa di manipolazione.
La discriminante del fattore “tempo” è stata colta in maniera precisa da una sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Pistoia[7] che ha svolto alcune considerazioni rilevanti in merito all’onere della prova.
I giudici hanno affermato che nel caso in cui tra l’acquisto e la rivendita dei prodotti intercorra un lasso di tempo brevissimo si deve presumere la mera commercializzazione dei prodotti. Tale circostanza è stata ritenuta sufficiente per considerare assolto l’onere dell’Ufficio di provare la fondatezza delle proprie contestazioni e cioè la mancata manipolazione del prodotto, incompatibile con una permanenza così breve in serra. Secondo il Collegio Pistoiese a fronte di una siffatta contestazione deve essere il contribuente a fornire la prova contraria, ossia di avere effettivamente svolto attività di manipolazione o trasformazione del prodotto prima della rivendita, prova che può esser data anche per presunzioni, purché connotate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Il Collegio Pistoiese riconduce alla brevissima permanenza in azienda delle piante un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente che dovrà quindi dimostrare di avere effettivamente svolto attività di manipolazione/trasformazione sulle piantine acquistate.
Tale dimostrazione assume tutti i caratteri di una prova “diabolica”, poiché risulta pressoché impossibile provare, magari a distanza di anni, di aver effettuato questo tipo di operazioni.
[1] A partire dal 1° gennaio 2020, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 225 della Legge 160/2019, è stata introdotto il comma 3 bis dell’art. 56-bis che ha introdotto un regime forfettario per la mera commercializzazione di piante vive e prodotti della floricoltura acquistate da imprenditori agricoli florovivaistici di cui all’articolo 2135 del codice civile, nei limiti del 10 per cento del volume di affari, da altri imprenditori agricoli florovivaistici. Per tali prodotti il reddito è determinato applicando all’ammontare dei corrispettivi delle operazioni registrate o soggette a registrazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto il coefficiente di redditività del 5 per cento.
[2] D.Lgs. 546/92, art. 7, comma 5 bis: “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.”
[3] Art. 2697 Codice Civile: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.”
[4] Cass., Ord. 8 gennaio 2024, n. 534; Cass., Ord. 5 dicembre 2023, n. 34029; Cass., Ord. 28 dicembre 2022, n. 37985; Cass., Ord. 27 ottobre 2022, n. 31878.
[5] Accertamento di natura induttiva (art. 39, comma 2, DPR n. 600/1973): l’ufficio può procedere alla ricostruzione del reddito d’impresa prescindendo in tutto o in parte dalle scritture contabili o dalla dichiarazione sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza. Possono essere utilizzate presunzioni anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Questo tipo di accertamento è applicabile solo nell’ipotesi in cui siano state riscontrate gravi anomalie nella tenuta della contabilità e nei casi tassativamente elencati al comma 2 dell’art. 39 del D.P.R. 600/73.
[6] Corte di Cassazione, Sez. 2, Ordinanza n. 9054 del 21/03/2022
[7] Commissione Tributaria Provinciale di Pistoia, Sentenza n. 72/2018: “nel caso in cui tra l’acquisto e la rivendita dei prodotti intercorra un lasso di tempo brevissimo si debba presumere la commercializzazione dei prodotti stessi e con ciò l’Ufficio abbia assolto il proprio onere probatorio, spettando in tal caso al contribuente di fornire la prova contraria, ossia di avere effettivamente svolto attività di manipolazione o trasformazione del prodotto prima della rivendita, prova che può esser data anche per presunzioni, purché connotate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza.”