15 Giu CONTROLLI FISCALI IN AGRICOLTURA: SOTTO LA LENTE DEL FISCO I PREZZI DI TRASFERIMENTO ALLA SOCIETÀ COMMERCIALE
di Vanni Fusconi – Pubblicato sulla Rivista n. 06 2025 di ConsulenzaAgricola.it
L’attività agricola beneficia, nell’ordinamento tributario italiano, di un regime fiscale e contributivo particolarmente favorevole, finalizzato a sostenere un settore strategico per l’economia nazionale.
Tra le varie forme giuridiche utilizzabili per lo svolgimento dell’impresa agricola, la società semplice (s.s.) rappresenta, senza dubbio, lo strumento più idoneo per accedere in maniera piena e diretta ai benefici fiscali, in particolare alla determinazione forfettaria del reddito agrario e dominicale su base catastale, prevista per gli imprenditori agricoli individuali e per le società semplici che esercitano attività agricola ai sensi dell’art. 2135 c.c.
Tuttavia, nelle realtà agricole di maggiore dimensione o complessità organizzativa, è prassi consolidata affiancare alla società semplice o all’impresa agricola individuale un soggetto giuridico diverso, generalmente una società a responsabilità limitata (S.r.l.), avente lo scopo di fungere da interfaccia operativa e commerciale con il mercato. In tale configurazione, la S.r.l. svolge tipicamente funzioni di trasformazione, commercializzazione o logistica, lasciando alla società agricola la fase produttiva vera e propria.
Questa struttura duale, sebbene lecita e spesso giustificata da esigenze economiche e organizzative, è oggetto di particolare attenzione da parte dell’Amministrazione finanziaria. Il motivo risiede nel diverso trattamento fiscale riservato ai soggetti coinvolti: da un lato, il soggetto agricolo che determina il proprio reddito su base catastale, spesso in misura estremamente contenuta; dall’altro, la S.r.l., soggetta alla tassazione ordinaria sul reddito d’impresa.
Proprio a causa di questa differenza di imposizione, le transazioni infragruppo possono prestarsi, almeno potenzialmente, a condotte finalizzate a trasferire ricavi (o meglio, marginalità economiche) dal soggetto commerciale – assoggettato alle imposte nei modi ordinari – al soggetto agricolo che beneficia della determinazione del reddito su base catastale. Tipicamente, ciò può avvenire attraverso la sopravvalutazione dei prezzi di trasferimento dei beni e servizi forniti dal soggetto agricolo al soggetto commerciale, con l’effetto di erodere la base imponibile della S.r.l. e concentrare i profitti nel perimetro fiscalmente privilegiato.
In sede di accertamento, qualora l’Agenzia delle Entrate accerti l’esistenza di un controllo, anche di fatto, tra le due società – secondo i criteri desumibili dall’art. 2359 c.c. e dalla prassi amministrativa – e riscontri che i rapporti commerciali tra le stesse si discostano significativamente dai valori di mercato, come definiti dall’art. 9 del TUIR (valore normale), potrà configurarsi una fattispecie idonea a giustificare un intervento correttivo in via accertativa. In tale evenienza, l’onere della prova si sposta sul contribuente, il quale sarà tenuto a dimostrare, con documentazione puntuale e coerente, la correttezza sostanziale dei prezzi praticati e la non artificiosità delle operazioni intercorse, al fine di evitare la rettifica della base imponibile e l’eventuale irrogazione di sanzioni amministrative per infedele dichiarazione.
Per meglio comprendere la natura del problema occorre indagarne le origini attraversando l’evoluzione normativa e giurisprudenziale che negli anni ha interessato le operazioni infragruppo.
Originariamente, nella Risoluzione ministeriale n. 9/198/1982 e nella Circolare ministeriale n. 32/E/1980, era stata affermata la possibilità, per gli Uffici, di contestare la congruità dei corrispettivi previsti nelle transazioni infragruppo tra società residenti in Italia sulla base del semplice presupposto che il valore normale dei beni e dei servizi scambiati non fosse in linea con le valutazioni di mercato. Tale orientamento era stato però superato dalla C.M. n. 53/E/1999 con la quale l’Agenzia aveva precisato che le disposizioni di cui all’art. 110, comma 7[1] del TUIR che disciplinano per l’appunto il cosiddetto “transfer pricing esterno” non potevano trovare applicazione nelle transazioni commerciali infragruppo fra società residenti in Italia.
In una prima fase, la Cassazione ha esteso l’applicazione della disciplina del transfer pricing, tradizionalmente riferita a operazioni transfrontaliere, anche ai rapporti infragruppo tra società residenti nel territorio nazionale. Sul punto possono essere menzionate numerose pronunce di legittimità[2], in particolare, nella Sentenza n. 17955/2013, la Corte ha affermato che il criterio del valore normale rileva anche nei rapporti infragruppo interni quando l’operazione è posta in essere con finalità elusive, quali lo spostamento di utili verso società con regimi fiscali più favorevoli, anche a livello territoriale. In tal modo, il meccanismo di manipolazione dei prezzi interni risulterebbe analogo a quello riscontrato nelle operazioni internazionali, giustificando l’estensione della disciplina come clausola antielusiva immanente al sistema tributario nazionale, e coerente con i principi unionali sull’abuso del diritto.
L’ordinanza n. 3170/2018 ha ulteriormente chiarito che l’Amministrazione finanziaria, anche in assenza di irregolarità formali nella contabilità del contribuente, ha il potere di valutare la deducibilità dei costi sulla base della loro congruità e coerenza con i criteri dell’economia di mercato. Tale valutazione può condurre al disconoscimento, totale o parziale, di costi sproporzionati rispetto ai ricavi, se il contribuente non fornisce giustificazioni plausibili.
La sentenza n. 16366/2020 ha infine ribadito che il riferimento al valore normale, sancito dall’art. 9 del T.U.I.R., costituisce un canone di portata generale, non meramente contabile, applicabile anche alle cessioni infragruppo di partecipazioni. Lo scostamento dai valori di mercato assume valore indiziario e, in mancanza di elementi contrari, può legittimare l’accertamento, facendo ricadere sul contribuente l’onere di dimostrare l’assenza di finalità elusive.
Secondo autorevole dottrina[3], la ricostruzione interpretativa della Suprema Corte non sarebbe condivisibile, in quanto il “valore normale”, sancito dall’art. 9 del DPR 917/1986, non è uno strumento di controllo, bensì un criterio da utilizzare nel caso in cui siano previsti componenti reddituali “in natura”[4]. Il criterio del valore normale può essere utilizzato per fini accertativi solo nell’ipotesi in cui lo stesso sia espressamente contemplato da specifica disposizione. Del resto, se non fosse così, non si comprende quale bisogno avrebbe avuto il legislatore di inserire nel nostro ordinamento l’art. 110, comma 7 del TUIR[5], limitandone l’applicabilità ai corrispettivi delle operazioni infragruppo che vedono coinvolto un soggetto non residente[6].
Con l’intento di contrastare l’interpretazione della Corte di Cassazione, anche in virtù delle osservazioni nel parere della VI Commissione Finanze della Camera dei deputati[7], il legislatore con l’art. 5, commi 3, del D.Lgs. n. 147/2015[8] ha introdotto una norma di interpretazione autentica al fine di stabilire che la normativa sul transfer pricing “estero”, di cui all’art. 110, comma 7, del T.U.I.R., va interpretata nel senso che la relativa disciplina non si applica alle transazioni tra società appartenenti allo stesso gruppo residenti in Italia.
L’intervento normativo ha tuttavia sollevato molte critiche, poiché è intervenuto sull’applicabilità di una disposizione che sulla base del proprio tenore letterale trovava già esclusiva applicazione alle transazioni che venivano poste in essere tra un’impresa residente e una società non residente facenti parte dello stesso gruppo. Se invece il legislatore avesse stabilito la possibilità di applicare il principio del “valore normale” di cui all’art. 9 del TUIR alle sole ipotesi in cui lo stesso viene espressamente richiamato da altre disposizioni normative, con tutta probabilità non avremmo assistito alla riviviscenza di questo principio al fine di legittimare il cosiddetto transfer pricing “domestico”.
La Corte di cassazione, con la Sentenza n. 16948 del 25 giugno 2019, ha recepito l’interpretazione autentica dell’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 147/2015 ed ha affrontato esplicitamente la problematica dell’applicabilità del c.d. transfer pricing domestico e del ruolo del valore normale nelle operazioni infragruppo tra società residenti in Italia. In tale occasione, la Corte ha riconosciuto l’esistenza di due distinti orientamenti giurisprudenziali: il primo teso a ricondurre la disciplina del transfer pricing interno ad una fattispecie elusiva[9], il secondo finalizzato a perseguire l’antieconomicità dell’operazione, in cui lo scostamento dal valore normale ha funzione meramente indiziaria, giustificando un accertamento analitico-induttivo ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973[10].
In merito al primo punto è stato stabilito il principio secondo cui: “le transazioni infragruppo interne non sono soggette alla valutazione del valore normale ex art. 9 T.U.I.R., né una eventuale alterazione rispetto al prezzo di mercato può, di per sé, fondare una valutazione di elusività dell’operazione”.
In merito al secondo profilo, invece, la Cassazione lascia aperta la possibilità per gli Uffici delle Entrate di sindacare la congruità dei corrispettivi delle transazioni infragruppo in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, principio che la Corte ha applicato in numerose sentenze anche ai costi correlati ai servizi infragruppo[11].
Nella Sentenza n. 10422 del 19 aprile 2023, la Cassazione ha confermato l’applicabilità ex tunc dell’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 147/2015. Tuttavia, ha ritenuto legittimo l’uso del criterio del valore normale non come sindacato automatico sulle scelte imprenditoriali, ma come indice di antieconomicità macroscopica dell’operazione, nel caso di un canone di locazione di molto inferiore a quello di mercato. Tale antieconomicità è stata considerata elemento sintomatico della non inerenza del costo, coerente con la giurisprudenza della Sezione tributaria (Cass. n. 18904/2018), fermo restando che l’onere della prova della regolarità dell’operazione e dell’assenza di un vantaggio fiscale indebito grava sul contribuente.
Con la Sentenza n. 5859 del 5 marzo 2024, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittima l’azione dell’Agenzia delle Entrate che ha fondato le proprie contestazioni esclusivamente sullo scostamento dei prezzi di trasferimento infragruppo dal valore normale, ai sensi dell’art. 9 TUIR. Secondo i giudici di legittimità, l’intervento normativo di cui all’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 147/2015 – volto a escludere l’applicazione del transfer pricing internazionale alle operazioni tra società residenti appartenenti al medesimo gruppo – ha efficacia limitata al solo art. 110, comma 7, TUIR, senza pregiudicare l’autonoma operatività dell’art. 9, che conserva rilevanza generale e autonoma applicazione anche nei rapporti infragruppo domestici, come ribadito nel principio di diritto enunciato nella stessa pronuncia.
In sostanza, la Suprema Corte ha equiparato la funzione dell’art. 9, comma 3, TUIR a quella dell’art. 110, comma 7, ritenendo che esso consenta all’Amministrazione finanziaria di procedere a rettifiche dei redditi sulla sola base della divergenza tra il valore normale e il corrispettivo praticato tra entità del medesimo gruppo. Tuttavia, tale ricostruzione appare discutibile: i criteri di determinazione del valore normale di cui all’art. 9 dovrebbero, al più, costituire un elemento sintomatico di possibili condotte elusive o fraudolente, e non un fondamento autonomo per la rettifica. In assenza di specifiche previsioni derogatorie, i corrispettivi concordati tra soggetti residenti dovrebbero infatti ritenersi validi e rilevanti ai fini fiscali, concorrendo ordinariamente alla determinazione del reddito. Solo in presenza di comportamenti concretamente contrari alla normativa tributaria, l’Amministrazione potrà legittimamente disconoscerli o rettificarli. Non può invece ritenersi giustificata un’attività di accertamento basata esclusivamente sulla divergenza dal prezzo di mercato.
L’orientamento giurisprudenziale critico verso un uso estensivo del valore normale come unico parametro per fondare rettifiche fiscali nelle operazioni infragruppo tra soggetti residenti trova un significativo riscontro nei principi espressi dalla Legge delega n. 111/2023, in particolare all’art. 17, comma 1, lett. h), n. 3). Tale disposizione, inserita tra i criteri direttivi per la riforma del sistema tributario, enuncia in modo esplicito l’esigenza di rafforzare la certezza del diritto e la tutela dell’affidamento legittimo del contribuente, limitando il potere dell’Amministrazione finanziaria di fondare presunzioni di maggiori componenti reddituali positivi (o minori negativi) unicamente sul valore di mercato dei beni o dei servizi oggetto della transazione.
Il principio stabilito dalla norma delegante è chiaro, il criterio del valore normale di cui all’art. 9 del TUIR. è applicabile, nella disciplina delle imposte sui redditi, soltanto nei casi in cui lo stesso sia espressamente richiamato da specifiche disposizioni normative. In assenza di una siffatta disposizione la rettifica dei prezzi di trasferimento è possibile soltanto in presenza di ulteriori e gravi elementi probatori.
Al momento i principi enunciati dalla legge delega non hanno ancora trovato attuazione, ma alla luce degli ultimi interventi giurisprudenziali è necessario un intervento immediato al fine di dare certezza al nostro sistema tributario.
[1] L’art. 110, comma 7, del T.U.I.R., stabilisce che “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente od indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, se ne deriva aumento del reddito; la medesima disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, secondo le modalità e alle condizioni di cui all’art. 31-quater” del D.P.R. n. 600/1973.
[2] Corte di Cassazione, sentenze nn. 10802/2002, 23551/2012, 17955/2013, 12502 e 23124/2014, e n. 12844/2015
[3] Transfer pricing “interno” tra incertezze della Cassazione e attuazione della delega fiscale, Gianfranco Ferranti in Corriere Tributario.
[4] Art. 9, comma 2 del TUIR: “Si ritiene che la ricostruzione interpretativa della Suprema Corte sopra descritta non sia condivisibile in quanto il valore normale non costituisce uno strumento generale di controllo dei corrispettivi bensì un criterio da utilizzare in presenza di componenti reddituali “in natura”. Soltanto in limitati casi, normativamente previsti – quale quello contemplato nell’art. 110, comma 7, del T.U.I.R. -, può trovare applicazione in relazione a transazioni per le quali è stabilito un corrispettivo.
D’altra parte, se quello del valore normale costituisse un principio di carattere generale che consente di sindacare la congruità dei corrispettivi di tutte le transazioni non si comprenderebbe perché il legislatore abbia espressamente sancito nell’art. 110 del T.U.I.R. la regola del transfer pricing e l’abbia limitata ai corrispettivi delle operazioni infragruppo che vedono coinvolto un soggetto non residente.”.
[5] Art. 110, comma 7 del TUIR: “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, se ne deriva un aumento del reddito. La medesima disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, secondo le modalità e alle condizioni di cui all’articolo 31-quater del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze (D.M. 14/05/2018 GU 118/2018), possono essere determinate, sulla base delle migliori pratiche internazionali, le linee guida per l’applicazione del presente comma.”
[6] Transfer pricing “interno” tra incertezze della Cassazione e attuazione della delega fiscale, Gianfranco Ferranti in Corriere Tributario, n. 8-9, 1° agosto 2024, p. 679.
[7] La VI Commissione Finanze della Camera dei deputati aveva chiesto espressamente di “chiarire con norma espressa che il cosiddetto transfer pricing interno non è compatibile con l’attuale impianto del T.U.I.R.”.
[8] Art. 5, comma 3, D.Lgs.147/2015: “Gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5-bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché’ per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347”.
[9] Cass., n. 17955 del 2013 e n. 8449 del 2014.
[10] Sentenza Cass., n. 13475 del 2014.
[11] “Se i costi sostenuti dall’impresa sono eccessivi e sproporzionati, l’Amministrazione finanziaria può contestare – in materia di imposte dirette (e, in termini più limitati e rigorosi, di IVA) – l’antieconomicità della spesa, che assume rilievo, sul piano probatorio, come indice sintomatico della carenza di inerenza, con la conseguenza che, in tal caso, spetta al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali. Ove, invece, i profitti siano eccessivamente bassi, l’incongruità costituisce indice di un possibile occultamento (parziale) del prezzo, che legittima, anche qui, la ricostruzione induttiva”. È stato ritenuto che in tali casi lo scostamento dal c.d. valore normale assuma rilievo “quale parametro meramente indiziario: l’operazione che si pone fuori dai prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia, sì da poter giustificare in assenza di elementi contrari l’accertamento, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste”. Corte di Cassazione, sentenza n. 16948/2019.