L’Agenzia delle Entrate riqualifica i contratti di soccida

La soccida rappresenta oggi la forma contrattuale sulla quale si basa gran parte dell’allevamento nazionale: la sua importanza è cresciuta nel tempo in tutti i settori dell’allevamento trovando la sua massima espressione in quello avicolo e suinicolo.

L’accresciuta e continua applicazione di questo contratto da parte di tutti i più importanti allevatori, abbinata alla crescente importanza del comparto agroalimentare, ha attirato l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate. Infatti, da più parti del Paese pervengono segnalazioni su accertamenti dell’Amministrazione Finanziaria volti in gran parte a contestare aspetti del contratto di soccida, soprattutto per quanto riguarda l’imposta sul valore aggiunto.

Prima di evidenziare alcune delle contestazioni mosse dall’Agenzia delle Entrate, cercando di comprenderne i fondamenti giuridici, è bene riepilogare la normativa civilistica e fiscale di questa antica forma contrattuale, ancora molto attuale.

ASPETTI CIVILISTICI

La nozione di contratto di soccida è dettata dall’art. 2170 c.c., in base al quale:

1. Nella   soccida il soccidante ed il soccidario si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di ripartirne l’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano. 2. L’accrescimento consiste tanto nei parti sopravvenuti, quanto nel maggior valore intrinseco che il bestiame abbia al termine del contratto”.

Il codice civile prevede tre tipologie di contratti di soccida:

  • la soccida semplice (art. 2170 – 2181 c.c.);
  • la soccida parziaria (art. 2182 – 2185 c.c.);
  • la soccida con conferimento di pascolo (art. 2186 c.c.).

Nella soccida semplice il soccidante conferisce gli animali e i mangimi necessari per l’allevamento, mentre il soccidario (Società), seguendo le direttive del soccidante, presta il lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, mettendo a disposizione i locali, i terreni e le attrezzature necessarie per l’allevamento.

Nella soccida parziaria gli animali sono conferiti, nelle proporzioni convenute, da entrambi i contraenti, i quali ne sono, pertanto, comproprietari; mentre nella soccida con conferimento di pascolo gli animali sono interamente conferiti dal soccidario e il soccidante mette a disposizione il terreno per il pascolo.

Il tipo di contratto più utilizzato è sicuramente il primo in quanto, nella maggior parte dei casi, il bestiame è conferito esclusivamente dal soccidante.

A fine ciclo, il soccidante ed il soccidario si ripartiscono gli utili derivanti dall’attività di allevamento, consistenti nell’accrescimento degli animali e negli altri prodotti utili che ne derivano (ad es. latte, uova). La ripartizione degli utili può avvenire, a scelta delle parti, secondo le seguenti modalità:

  • con attribuzione al soccidario di un numero di capi corrispondenti agli accrescimenti da lui maturati. Tali accrescimenti vengono determinati in base alla differenza tra il peso degli animali rilevato alla fine del ciclo e quello di inizio ciclo, al netto degli eventuali scarti commerciali e del tasso di mortalità.
  • il soccidario, se previsto contrattualmente, ha la facoltà di chiedere la monetizzazione degli animali a lui spettanti sulla base del prezzo corrente di mercato nella settimana di consegna.

Presupposto fondamentale affinché si tratti di contratto di soccida è la circostanza che il soccidario, che provvede ad accudire gli animali, abbia una sufficiente autonomia imprenditoriale e riceva, alla fine del ciclo, una parte di animali a titolo di accrescimento, che potrà anche essere monetizzata.

Un compenso forfetario ricevuto dal soccidario evidenzia, invece, un contratto d’opera, che non può rientrare nell’ambito della agricoltura (Risoluzione Ministeriale n. 560921 del 16 novembre 1990); il contratto non deve prevedere che il soccidario riceva un compenso rapportato al numero dei capi ed al numero dei giorni di allevamento: è necessario che il soccidario corra l’alea dell’impresa, che gli incrementi a lui spettanti vengano quantificati in base alla resa effettiva rilevata a fine ciclo e che il corrispettivo sia legato al prezzo corrente di mercato.

ASPETTI FISCALI – IVA

L’attività di allevamento in soccida

Nella soccida semplice sia il soccidante che il soccidario partecipano all’attività di allevamento di cui si assumono i rischi in proporzione alle quote conferite. Ciò fa sì che entrambi i soggetti siano considerati soggetti passivi ai fini IVA, ai sensi di quanto previsto dall’art. 4 del D.P.R. n. 633/1972. Tale orientamento è condiviso anche dal Ministero delle Finanze che con la Circolare 27 aprile 1973, n. 32 ha precisato:

“Nel caso di allevamenti condotti in base ad un contratto di soccida, avente le caratteristiche di cui all’art. 2170 e segg. del Codice civile , possono essere considerati produttori agricoli, ai fini dell’ art. 34, in quanto partecipi dell’ attività di allevamento di cui si assumono i rischi in proporzione alle quote conferite, sia il soccidario che il soccidante il quale svolga in proprio l’ attività di allevatore. Ne deriva che alle cessioni aventi per oggetto i frutti dell’allevamento, può essere applicato il regime di cui al primo comma del richiamato art. 34; nell’accennata ipotesi, la veste di contribuente viene assunta dal solo soccidante qualora provveda alla vendita dell’intero prodotto, ovvero anche dal soccidario per la parte di sua spettanza che venga da esso direttamente ceduta.”.

Ricordiamo che secondo l’orientamento dell’Amministrazione Finanziaria il soccidante non può applicare il regime speciale IVA se non esercita in proprio l’attività di allevamento (Risoluzione Ministeriale n. 381861 del 28 maggio 1980); ne consegue che deve condurre con propri dipendenti un allevamento di animali senza rapporti associativi. La nota ministeriale non precisa quale debba essere l’entità dell’allevamento, ma si ritiene che debba essere tale da giustificare l’esercizio di impresa. La nota non è, peraltro, condivisibile, poiché il soccidante rientra, comunque, nell’articolo 2135 del codice civile, in quanto esercente l’attività di allevamento e l’articolo 34 del D.P.R. n. 633/72, sotto il profilo soggettivo, richiama soltanto la norma civilistica senza limitazioni.

Il conferimento degli animali da parte del soccidante

Nel contratto di soccida semplice il soccidante conferisce gli animali e il soccidario provvede all’allevamento.

L’inquadramento ai fini IVA dell’operazione di conferimento è stato offerto dalla Circolare n. 48/E del 9 febbraio 1995 con cui il Ministero delle finanze ha precisato che tale operazione non è soggetta ad IVA, in quanto il conferimento del bestiame da parte del soccidante non viene considerato trasferimento del diritto di proprietà da parte dello stesso. Nonostante ciò, non è precluso l’assoggettamento ad imposta delle successive operazioni di rivendita degli animali.

Le medesime conclusioni valgono anche relativamente alla fase estintiva del menzionato rapporto contrattuale;  per quanto riguarda la soccida semplice, il soccidante preleva, al termine della stessa, un complesso di capi che per numero, razza, sesso, peso e quantità siano corrispondenti al bestiame originariamente apportato (art. 2181 Codice civile), in pratica riassumendo la materiale disponibilità del proprio bestiame inizialmente conferito.

Per quanto attiene alla divisione degli accrescimenti, questa non è altro che un atto dichiarativo dell’acquisto originario degli stessi, che altro non sono che una fruttificazione del diritto di proprietà del bestiame oggetto del contratto di soccida.

La ripartizione degli accrescimenti

L’articolo 2170 del codice civile dispone che l’accrescimento consiste tanto nei parti sopravvenuti, quanto nel maggior valore intrinseco che il bestiame ha al termine del contratto: per gli animali nati è, quindi, fuori dubbio che la relativa cessione è soggetta al regime IVA del cedente, che può essere anche il soccidario.

Il problema si pone, invece, per gli animali destinati all’ingrasso che si incrementano in termini di peso, ma non di numero, dei quali, alla fine del ciclo, una parte viene assegnata al soccidario.

In base a tale disposizione, non sarebbe possibile considerare quale accrescimento l’intera quota di animali assegnata al soccidario, in quanto, secondo la definizione civilistica, si tratta della differenza fra valore iniziale e valore finale.  L’articolo 2181 del codice civile, tuttavia, dispone che, al termine del contratto, il soccidante prelevi un complesso di capi, che, avuto riguardo al numero, alla razza, al sesso, al peso, alla qualità e all’età, sia corrispondente alla consistenza del bestiame apportato all’inizio della soccida. L’eccedenza va divisa tra le parti secondo le 2 seguenti modalità alternative:

1) può essere riconosciuto al soccidario una parte di animali proporzionale agli accrescimenti da lui maturati;

2) se previsto contrattualmente, gli accrescimenti possono essere monetizzati.

Ripartizione degli accrescimenti

In questa ipotesi il soccidario trattiene la quota di propria spettanza degli accrescimenti sotto forma di animali oppure dei prodotti utili che ne derivano (ad es. latte, uova).

Anche la ripartizione degli accrescimenti, come il conferimento degli animali, rappresenta una operazione neutra ai fini IVA, ma ciò non preclude l’assoggettamento ad imposta delle successive operazioni di vendita degli animali. In tal senso la Circolare n. 48/E del 9 febbraio 1995.

Come sopra già argomentato soccidante e soccidario sono considerati soggetti passivi di imposta ai fini IVA, pertanto, in caso di vendita degli animali dovrà essere applicato il regime speciale IVA – regime naturale – e le relative percentuali di compensazione di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 633/1972. Diversamente, nell’ipotesi in cui le parti abbiano optato per il regime IVA ordinario, ai sensi di quanto previsto dall’art. 34 comma 11 del D.P.R. n. 633/1972, potranno usufruire del regime di detrazione dell’imposta di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972.

Monetizzazione degli animali

In questa ipotesi il soccidante preleva e cede l’intera quantità di animali versando al soccidario una somma di denaro pari alla quota di accrescimento a lui spettante.   

Il Ministero, con la Circolare n. 32 del 27 aprile 1973 e con la Risoluzione n. 504929 del 7 dicembre 1973 ha chiarito che l’assegnazione degli animali al soccidante da parte del soccidario è una operazione esclusa da IVA. Tale interpretazione crea non pochi problemi ai fini dell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto.

Infatti, l’esclusione da IVA di tali operazioni ha indotto l’Agenzia delle Entrate a negare il diritto alla detrazione ed al rimborso dell’imposta assolta dal soccidario (ovviamente in regime normale IVA) per operazioni inerenti all’attività di allevamento in soccida. Ciò in virtù del fatto che l’art.19 comma 2 del D.P.R. n. 633/1972 nega la detraibilità dell’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta.

Tale orientamento, che riteniamo non condivisibile, sembra ormai essere stato avvallato anche dalla giurisprudenza dio legittimità: in tal senso Corte di Cassazione sentenza n.14791 del 15 luglio 2015, n. 27715 del 11 dicembre 2013 e n. 8727 del 10 aprile 2013.

LA RIQUALIFICAZIONE DELLA SOCCIDA

Come evidenziato nei paragrafi precedenti il contratto di soccida offre alle parti, ed in particolare al soccidario, la possibilità di trattenere la propria quota di accrescimenti oppure optare per la monetizzazione. Nel caso cui si opti per la prima soluzione il soccidario potrebbe anche scegliere di vendere la propria quota di animali al soccidante stesso, configurandosi ai fini fiscali una vera e propria cessione di beni imponibile IVA secondo il regime proprio del soggetto cedente.

Quest’ultima soluzione, tutt’altro che infrequente nel mondo dell’allevamento, sembra essere proprio quella su cui l’Agenzia concentra maggiormente la propria attenzione, soprattutto quando ci si trova al cospetto di operazioni poco chiare e  non lineari sia dal punto di vista contrattuale che documentale.

L’Amministrazione si concentra sul soccidario riqualificando la ripartizione degli accrescimenti in una soccida monetizzata, quindi fuori campo IVA in virtù di quanto precisato dalla già richiamata prassi. Una siffatta contestazione determina per il soccidario l’indetraibilità specifica dell’IVA sugli acquisti inerenti all’attività di allevamento in soccida, con applicazione delle relative sanzioni.

Il ragionamento dell’Agenzia delle Entrate è piuttosto semplice ed è incentrato su alcuni passaggi:

  • la quota di accrescimento spettante al soccidario non è stata ceduta dallo stesso sul mercato, ma è stata determinata mediante le tabelle di conversione normalmente allegate al contratto di soccida.
  • la quota di accrescimento spettante al soccidario è stata quindi “monetizzata”, ossia è stata liquidata dal soccidante che ha provveduto a cedere sul mercato tutti gli animali allevati corrispondendo al soccidario l’equivalente monetario della sua quota di accrescimento.
  • la liquidazione monetaria della quota di accrescimento spettante al soccidario non costituisce operazione imponibile da assoggettare ad IVA.

Come detto, l’Ufficio è indotto a muovere questo tipo di contestazioni soprattutto quando, in sede di verifica, riscontra una gestione dei documenti non lineare e clausole contrattuali non sempre chiare:

  • molto spesso, infatti, nelle fatture attive emesse dal soccidario nei confronti del soccidante sono richiamati tutti i DDT con cui il soccidario restituisce gli animali allevati, comprensivi non solo degli animali di spettanza del soccidante (conferimento iniziale + quota di accrescimento soccidante) ma anche della propria quota di accrescimenti. Questa commistione, molto spesso non documentata da opportune diciture, crea ovviamente non pochi dubbi in capo ai verificatori;
  • è frequente che la quota di animali del soccidario venga consegnata direttamente al cessionario a cui il soccidante cede la totalità degli animali. Questa circostanza, desumibile chiaramente dai DDT, induce i verificatori a pensare che sia il soccidante a cedere tutti gli animali e che i corrispettivi erogati al soccidario costituiscano una mera remunerazione in denaro del rapporto di soccida;
  • la situazione potrebbe essere ulteriormente complicata da clausole contrattuali poco chiare che non prevedono espressamente in capo al soccidario la possibilità di trattenere gli animali e di venderli direttamente sul mercato.

UNA TESI POCO CONDIVISIBILE

A prescindere dalla corretta gestione contabile delle operazioni e di clausole contrattuali più o meno chiare (vedremo poi come migliorare tali aspetti) riteniamo che l’interpretazione offerta dall’Agenzia delle Entrate non possa essere ritenuta condivisibile.

Infatti, nel momento in cui il soccidario ha provveduto a vendere la quota parte di prodotto a lui spettante in ragione dell’accrescimento ottenuto, fatturando le vendite dei beni con separata indicazione dell’Iva, tale operazione legittima la detraibilità dell’imposta a monte, a prescindere dal fatto che tali beni siano stati ceduti, anziché a terzi estranei, al soccidante.

In sostanza, non può di certo esserci una differenza di trattamento IVA sugli acquisti a seconda che il soccidario venda con fatturazione e applicazione dell’IVA i prodotti di sua spettanza a terzi o allo stesso soccidante, essendo la situazione fiscale esattamente la medesima in entrambi i casi. Non vi sarebbe, quindi, alcuna ragione per negare il diritto alla detrazione dell’IVA operata dal medesimo, a norma dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, sugli acquisti effettuati per l’esercizio dell’attività di soccida.

Deve trovare dunque applicazione il principio generale di cui al comma 1 dell’art. 19 D.P.R. n. 633/1972, che sancisce il diritto alla detrazione dell’imposta assolta e addebitata in via di rivalsa in relazione ai beni e ai servizi acquistati nell’esercizio dell’impresa.

Va inoltre affermato che negare il diritto alla detrazione dell’IVA in capo al soccidario significherebbe sacrificare (ingiustificatamente) il principio di neutralità che si pone a base del meccanismo dell’applicazione dell’IVA, rimanendo in tal caso il tributo indebitamente a carico del soccidario, soggetto imprenditore, che ha effettivamente svolto un’attività di impresa, in cui ad acquisiti inerenti a tale attività si sono contrapposte cessioni imponibili IVA afferenti alla stessa attività. Ciò sarebbe anche in palese contrasto con quanto sostenuto dalla giurisprudenza comunitaria, che ha costantemente ribadito il principio secondo cui l’IVA è destinata a tassare il consumo privato all’interno dello Stato, secondo un meccanismo che lascia inciso solo il consumatore finale del bene e che garantisce, per effetto del meccanismo della detrazione, la perfetta neutralità del tributo in capo ai soggetti passivi (Corte di Giustizia, sentenza del 27.9.2007 causa C-409/04).

Avallare la tesi dell’Amministrazione significherebbe “trattare” il soccidario quale consumatore finale, quando invece egli è un soggetto imprenditore che ha svolto effettivamente attività di impresa, acquistando beni e servizi con IVA e cedendo con IVA beni relativi tutti alla medesima attività di imprenditore agricolo.

Oltre alle argomentazioni di carattere giuridico sopra svolte, occorre evidenziare come la tesi sostenuta dall’Ufficio appaia del tutto avulsa dal contesto economico nel quale operano le aziende dedite all’allevamento.

Non bisogna dimenticare, infatti, che i principali player del settore dell’allevamento, ormai in tutti i comparti dello stesso, dall’avicolo fino al bovino, ricercano prodotti rivolti a soddisfare i gusti e le preferenze del consumatore che divengono, di anno in anno, più orientate a prodotti biologici ed ecosostenibili. Anche il mercato, non solo quello nazionale, richiede prodotti “brandizzati”, di filiera controllata e certificata con un’attenzione crescente al benessere animale e alle produzioni effettuate con energie rinnovabili e a basso impatto ecologico.

Per fronteggiare queste sfide le imprese si affidano a miglioramenti sia a livello di genetica animale che di processo in termini di strutture di allevamento, di alimentazione e di riduzione dei farmaci (es. antibiotic-free). Ogni grande player ha pertanto messo a punto proprie linee di prodotto che seguono disciplinari ben definiti con rigidi controlli a livello sanitario e di certificazione.

Un contesto così complesso e competitivo è molto distante dalla visione tradizionale della soccida (a cui peraltro si rifà l’Agenzia nelle sue considerazioni) ancora legata a concetti “arcaici” non più in linea con l’agricoltura moderna.

Per salvaguardare i propri investimenti ed il proprio know-how, i più importanti produttori impongono oggi ai propri soccidari obblighi di riservatezza sulle modalità e le tecniche di allevamento applicate in stalla così come il divieto di commercializzare un determinato “prodotto animale” al di fuori dei canali individuati per tutelare la filiera ed i prezzi, cercando nel contempo di evitare uno svilimento del prodotto.

In un simile contesto, proprio per prevenire i rischi in precedenza evidenziati, spesso il soccidante si trova costretto ad acquisire anche l’accrescimento di spettanza del soccidario; è evidente pertanto che non può considerarsi valido tout court l’assunto dell’Agenzia che vede, quale unica finalità della vendita dei prodotti al soccidante, l’intento di eludere il fisco.

Si dovrà invece avere riguardo ai singoli rapporti che vengono ad instaurarsi tra soccidante e soccidario nella consapevolezza che l’attribuzione al soccidario degli accrescimenti e la sua successiva cessione al soccidante sia del tutto lecita, regolare ed assoggettata ad IVA qualora le pattuizioni contrattuali e la documentazione siano univoche e concordi in tale direzione.

POSSIBILI SOLUZIONI

L’attenzione che l’Agenzia delle Entrate sempre più riserva al comparto agricolo dell’allevamento ed i conseguenti accertamenti che ne possono derivare, devono spingere le aziende ad essere molto più attente nella gestione delle soccide in tutte le loro fasi.

Punto di partenza è la redazione di contratti che non devono essere più standardizzati, con opzioni multiple (es. possibilità di monetizzare o di ripartire gli accrescimenti), ma tarati in funzione delle specificità del caso concreto: sarebbe quindi opportuno, ad esempio, in una soccida che prevede la ripartizione in natura dell’accrescimento non inserire nel contratto la possibilità di monetizzare.

Il contratto di soccida dovrà poi essere corredato di tutti quegli allegati, – si pensi in primis alla tabella di conversione -, indispensabili a determinare la quota parte di animali spettanti al soccidario in funzione della quantità e qualità dell’attività di allevamento fornita dal soccidario.

In alcuni casi il contratto di soccida non è l’unico contratto da redigere ma deve essere anche accompagnato da altre scritture: così in caso di soccida con ripartizione in natura dell’accrescimento e successiva cessione del prodotto al soccidante stesso, è del tutto consigliabile procedere alla redazione di  un contratto di cessione di prodotti agricoli separando, quindi, in modo netto la vicenda della soccida, che si conclude con il riparto degli animali, dalla successiva cessione regolata da un apposito e successivo contratto.

Infine, la massima attenzione va posta nella compilazione di tutti i documenti in corso di rapporto e conclusivi dello stesso. Ci si riferisce:

    • al verbale di fine ciclo che, oltre a contenere tutte le informazioni necessarie alla determinazione degli accrescimenti, deve rispettare le previsioni contrattuali in materia di ripartizione degli stessi;
    • ai documenti di trasporto, che oltre ad indicare la qualità e quantità del prodotto consegnato, devono riportare correttamente i titoli di movimentazione degli animali nonché la proprietà degli stessi;
    • alle fatture che devono riportare i riferimenti dei prodotti ceduti o dei DDT (da evitare descrizioni troppo generiche) e rispettare i tempi di emissione rispetto al momento di effettuazione dell’operazione (art.6 del D.P.R. n. 633/1972), soprattutto a seguito dell’introduzione dell’obbligo della fatturazione elettronica.

Proprio in relazione a quest’ultimo punto, evidenziamo che in caso di soccida non monetizzata la predisposizione di un contratto di vendita con prezzo da determinare potrebbe essere utile per legare l’emissione della fattura anziché alla consegna dei beni al soccidante (che li ritira in occasione della chiusura del contratto di soccida magari prima di aver effettuato il verbale di fine ciclo) alla determinazione del prezzo nel momento in cui gli animali vengono ceduti sul mercato. 

Non si può evitare di subire i controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate, ma la definizione preventiva delle condizioni e degli elementi alla base del contratto di soccida, l’attenzione nella redazione dei contratti ed il rispetto degli stessi nella documentazione prodotta durante ed al termine della fase di allevamento in soccida possono evitare, nella migliore delle ipotesi, l’emissione dell’accertamento e in ogni caso consentono una buona difesa con alte probabilità di vittoria in sede contenziosa.