ACCERTAMENTI IN MATERIA DI SOCCIDA, LA RIQUALIFICAZIONE COMPORTA IL RECUPERO DELL’IVA ANCHE IN CAPO AL SOCCIDANTE

 

Negli ultimi tempi stanno proliferando accertamenti in materia di soccida con cui l’Agenzia dapprima riqualifica il contratto alla stregua di una soccida monetizzata per poi recuperare l’iva in capo al soccidante.

La soccida è un contratto fondamentale per il mondo agricolo, poiché rappresenta l’ultimo baluardo dei contratti associativi tipicizzati in agricoltura. Di matrice antichissima trova la propria disciplina nel codice civile (art. 2170 e segg.) e rappresenta la base contrattuale su cui si fonda il settore dell’allevamento che muove un indotto di miliardi di Euro.

Nonostante l’importanza di questa forma contrattuale, negli ultimi decenni la soccida non ha trovato un adeguato livello di attenzione da parte dell’Amministrazione finanziaria, infatti gli ultimi chiarimenti ministeriali sono estremamente risalenti e questa indubbia obsolescenza ha fatto sì che le dinamiche del rapporto associativo si siano allontanate dalla ratio della normativa che lo ha introdotto.

Questa situazione e l’assenza di controlli da parte delle dell’Amministrazione ha fatto sì che nel settore dell’allevamento si sviluppassero tutta una serie di “abitudini” che hanno portato la gestione dei contratti di soccida lontano dalla disciplina originaria.

Come spesso accade però, l’Agenzia, dopo un lungo periodo di solo apparente disinteresse, è tornata ad occuparsi dei contratti di soccida e lo ha fatto in maniera massiva contestando la gestione IVA del rapporto associativo. In particolare, ogni qual volta che il soccidario vende la propria quota di animali al soccidante l’Agenzia contesta la monetizzazione del rapporto associativo con il conseguente recupero dell’IVA.

Le contestazioni nascono dal fatto che gli animali non sarebbero mai stati realmente divisi fra le parti, ma sarebbero stati tutti ritirati dal soccidante il quale avrebbe poi provveduto a liquidare al soccidario la propria quota di utili derivante dalle vendita degli stessi.

Ebbene, si tratta di contestazioni dalle gravi conseguenze per il contribuente, frutto di una gestione approssimativa del rapporto contrattuale, ma per capire come evitare gli accertamenti e all’occorrenza come impostare la propria strategia difensiva, bisogna prima analizzare l’origine del problema.

La soccida è un contratto associativo finalizzato alla divisione degli accrescimenti, del bestiame o degli altri utili che ne derivano (2170 c.c.), ma non bisogna dimenticare che gli animali conferiti inizialmente nel rapporto associativo sono di proprietà del soccidante e rimangono tali fino a quando le parti non decidono di dividere gli accrescimenti che saranno dati dal risultato della differenza fra gli animali risultati dal verbale di inizio ciclo e quelli risultanti dal verbale di fine ciclo.

Ebbene, una volta individuati gli accrescimenti ritengo che l’effettiva divisione degli animali rappresenti l’aspetto nodale di tutta questa vicenda. Infatti è proprio in mancanza di una effettiva e concreta ripartizione che l’Agenzia contesta la monetizzazione e, conseguentemente, disconosce l’assoggettamento ad IVA della vendita degli animali al soccidario.

Nel momento in cui gli animali vengono ritirati nella loro interezza dal soccidante e la ripartizione degli accrescimenti è ridotta ad una mera operazione contabile che si concretizza nella valorizzazione dei Kg di carne spettanti al soccidario, l’Agenzia ha gioco facile nel contestare una mera attribuzione di utili e il conseguente recupero dell’IVA. Del resto è la stessa Corte di Cassazione ad aver chiarito che in caso di soccida monetizzata la mera distribuzione di utili non ha alcuna rilevanza ai fini IVA.

In caso di contestazioni di questo tipo è indubbio che l’esito del giudizio sia legato a doppio filo alla gestione del rapporto contrattuale fra soccidante e soccidario. Poniamo, ad esempio, il caso di una soccida monetizzata che in virtù dell’esigenza del soccidario di detrarre l’IVA venga improvvisamente gestita come se gli animali fossero stati ripartiti con la conseguente fatturazione dal soccidario al soccidario.

Ebbene, in queste ipotesi, ad una diversa gestione contabile della remunerazione del compenso del soccidario molto spesso non corrisponde una effettiva e fattuale gestione degli animali in un’ottica di ripartizione, conseguentemente il rischio riqualificazione è alto e la strada del contenzioso in salita. Diverso è il caso in cui la gestione degli animali abbia effettivamente determinato una divisione e conseguentemente la legittima fatturazione al soccidante della quota di animali spettante al soccidario.