SOCIETA’ SEMPLICE DI GESTIONE IMMOBILIARE: VANTAGGI FISCALI E PASSAGGIO GENERAZIONALE DOPO LA RIFORMA

di Vanni Fusconi - Pubblicato sulla Rivista n. 10 2025 di Consulenzaagricola.it

La società semplice nasce come modello giuridico destinato a consentire l’esercizio collettivo di attività non commerciali, in particolare agricole, tanto che rappresenta la naturale formalizzazione giuridica di quella che un tempo poteva essere definita la famiglia coltivatrice.

Tuttavia, la sua flessibilità strutturale e la libertà concessa all’autonomia negoziale delle parti hanno progressivamente ampliato l’ambito delle sue applicazioni, trasformandola in uno strumento efficace per la gestione patrimoniale e la pianificazione successoria.

Nel contesto attuale, caratterizzato da legami familiari e relazionali sempre più complessi, la società semplice offre al titolare di un patrimonio la possibilità di trasferire in una struttura giuridica unitaria beni immobili e di regolarne la partecipazione di altri soggetti (in particolare i familiari) in funzione della loro gestione. In questo modo si può favorire il coinvolgimento delle nuove generazioni garantendo continuità al patrimonio, che rimane integro anche al momento della successione, evitando la frammentazione tipica delle divisioni ereditarie.

Le società semplici lucrative e di mera gestione immobiliare

Prima di entrare nel merito di quelli che sono gli aspetti caratterizzanti la società semplice, è necessario chiarire quali attività possano essere esercitate attraverso questa forma giuridica. Il codice civile[1] da un lato, esclude l’attività di mero godimento di beni, che resta soggetta alle norme sulla comunione; dall’altro, riserva alle società commerciali — in nome collettivo, in accomandita semplice o di capitali — l’esercizio di attività imprenditoriali. In questo modo, la società semplice viene a collocarsi in una zona intermedia, entro i limiti esterni tracciati dalla legge, destinata a raccogliere tutte le attività economiche collettive non commerciali, prima fra tutte quella agricola.

L’evoluzione interpretativa e la prassi applicativa hanno però ampliato questo ambito, riconoscendo alla società semplice un ruolo più articolato, soprattutto nella gestione di patrimoni immobiliari. Tale sviluppo si fonda su un’interpretazione estensiva del concetto di “attività economica non commerciale”, che consente di utilizzare la forma societaria anche per finalità di gestione patrimoniale, purché non si oltrepassi la soglia dell’attività imprenditoriale[2].

In buona sostanza alla società semplice è precluso lo svolgimento di un’attività commerciale ove la stessa sia esercitata in maniera economica ed organizzata e presupponga l’utilizzo di un complesso di beni e di mezzi coordinati ed organizzati ai fini della produzione. Al contrario è consentito lo svolgimento di un’attività non commerciale, ma comunque economica e finalizzata a conseguire utili. E l’ipotesi di un’attività economica non commerciale, svolta senza necessità di coordinamento dei mezzi della produzione e in assenza di qualsiasi organizzazione di tipo industriale, al fine di ricavarne un utile. È il caso di una società proprietaria di una o più unità immobiliari destinate ad essere locate in maniera stabile, senza che siano erogati servizi accessori.

Per quanto concerne, invece, le società semplici di mero godimento, l’orientamento più rigoroso, ancorato al dettato letterale dell’articolo 2248 del codice civile, ne ha tradizionalmente escluso la costituzione, poiché l’intestazione di beni al solo scopo di trarne utilità sarebbe equiparabile a una comunione. Tuttavia, una lettura più evolutiva, ispirata a principi sistematici, ha progressivamente superato questa visione restrittiva. L’ordinamento contemporaneo, infatti, ha riconosciuto l’autonomia del contratto di società anche al di fuori dello scopo lucrativo, ammettendo tipologie societarie prive di finalità di profitto[3].

Un aspetto che rende le società semplici particolarmente adatte a fungere da strumento di detenzione immobiliare anche a fini non lucrativi, è la loro esclusione dalla disciplina delle società di comodo[4]. Ma non solo, l’esclusione non riguarda solo la società semplice che detiene immobili, ma anche il caso in cui la società semplice sia detenuta da una società commerciale. Pertanto se una società commerciale detiene partecipazioni in una società semplice la stessa non rileverà ai fini dell’applicazione della disciplina delle società di comodo.

Sul punto, merita particolare attenzione la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 17441 del 25 giugno 2024, la quale conferma in modo inequivocabile la liceità dell’utilizzo dei beni sociali da parte dei soci nell’ambito delle società semplici, riconoscendo implicitamente che tali strutture possono essere legittimamente impiegate anche quale strumento di mera detenzione e gestione patrimoniale immobiliare. Nel caso trattato dai Giudici di legittimità, l’Agenzia delle Entrate aveva contestato l’utilizzo a titolo gratuito da parte di un socio di un bene immobile nella titolarità di una società semplice, sostenendo che in realtà si sarebbe configurato un reddito diverso, ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. h-ter) del TUIR. La Suprema Corte ha tuttavia escluso l’applicabilità di tale disposizione, precisando che l’art. 67, comma 1, lett. h-ter) TUIR — che si riferisce ai beni concessi in godimento ai soci o familiari nell’ambito di attività d’impresa — non può estendersi alle società semplici, le quali, ai sensi dell’art. 2249 c.c., non possono svolgere attività commerciale e, pertanto, non rientrano nella nozione di impresa.

Gli strumenti per agevolare il passaggio generazionale

A decorrere dal 1° gennaio 2025, la riforma dell’art. 3, comma 4-ter del D.Lgs. n. 346/1990 sembra aver eliminato qualsiasi dubbio in merito all’applicabilità delle agevolazioni previste dalla disciplina del patto di famiglia[5] anche alle società semplici che non esercitano attività di impresa.

In passato, l’assenza, nella formulazione originaria della norma, di un espresso riferimento alle società di persone aveva generato diffuse incertezze interpretative. Tale lacuna aveva indotto parte della prassi a estendere in via analogica il regime di esenzione anche ai trasferimenti di partecipazioni in tali società, pur in mancanza di un fondamento normativo esplicito. L’Amministrazione finanziaria[6], dal canto suo, aveva tentato di colmare tale vuoto subordinando l’agevolazione alla prosecuzione dell’attività d’impresa per almeno cinque anni, presupponendo un legame funzionale tra continuità aziendale e beneficio fiscale.

La nuova formulazione dell’art. 3, tuttavia, supera definitivamente questa impostazione, spostando l’attenzione dal requisito sostanziale della prosecuzione dell’attività imprenditoriale al vincolo formale della conservazione della partecipazione. Per le società di persone — e dunque anche per le società semplici — l’agevolazione risulta ora subordinata unicamente al mantenimento della quota per almeno cinque anni, da dichiararsi nell’atto di donazione, nella dichiarazione di successione o nel patto di famiglia. In tal modo, viene definitivamente abbandonato il criterio della continuità dell’esercizio dell’attività di impresa.

Questo mutamento di prospettiva apre la strada a un’interpretazione di grande rilievo pratico: il regime agevolativo e il patto di famiglia possono oggi trovare applicazione anche con riferimento alle società semplici di mera gestione immobiliare. La nuova disciplina, infatti, limita espressamente il requisito dell’esercizio di attività d’impresa al solo caso del trasferimento di azienda, lasciando intendere che i trasferimenti di partecipazioni in società prive di attività imprenditoriale — come, appunto, le società semplici di mera gestione immobiliare — rientrino nell’ambito oggettivo di applicazione dell’agevolazione.

Aspetti fiscali

Il reddito percepito dalla società semplice viene imputato per trasparenza ai soci e non costituisce una categoria reddituale autonoma, ma assume la natura della categoria da cui trae origine. Le società semplici destinate alla mera detenzione di beni immobili, generano tipicamente redditi fondiari, derivanti dal possesso di terreni e fabbricati, o redditi diversi.

La determinazione di tali redditi segue le regole previste dagli articoli 25[7] e seguenti del TUIR per i beni situati in Italia e dall’articolo 70 del medesimo testo normativo per gli immobili localizzati all’estero. In generale, si applicano alle società semplici le stesse norme previste per le persone fisiche che non svolgono attività di impresa commerciale.

Ovviamente le società semplice non potranno beneficiare di alcune agevolazioni riservate espressamente alle persone fisiche, quale è ad esempio quella relativa all’esenzione IMU per l’abitazione principale[8]. Le società semplici sono escluse anche dalla possibilità di applicare la cedolare secca sui canoni di locazione degli immobili abitativi e dalla normativa sulle locazioni brevi (articolo 4, D.L. 50/2017), poiché tali discipline si applicano solo alle persone fisiche.

L’assoggettamento della società semplice ai medesimi regimi delle persone fisiche comporta la non rilevanza reddituale di proventi realizzati per operazioni che il TUIR non prevede esplicitamente come fattispecie tassabili. Mi riferisco in particolare all’art. 67, comma 1, lett. b) del TUIR che esclude da tassazione le plusvalenze realizzate mediante la vendita di immobili acquistati o costruiti da più di 5 anni[9].

Per gli immobili detenuti da una società semplice di mero godimento (immobili tenuti a disposizione dei soci) il reddito fondiario si determina sulla base della rendita catastale aumentata di un terzo[10] e rivalutata del cinque per cento[11].

Nel caso in cui gli immobili vengano locati a terzi, quindi nel caso di società semplice non commerciale ma lucrativa, il reddito fondiario è determinato assumendo il maggiore fra il canone risultante dal contratto di locazione ridotto forfettariamente del 5% (o del 25% per i fabbricati situati in specifiche zone come Venezia centro e alcune isole limitrofe) e la rendita catastale rivalutata del cinque per cento[12].

Come già anticipato, i redditi fondiari della società semplice vengono imputati per trasparenza in capo ai soci. Ciò fa sì che non si verifichi l’effetto sostitutivo dell’IRPEF da parte dell’IMU, in quanto l’articolo 8, comma 1, D.Lgs. 23/2011 stabilisce che l’IMU sostituisce l’IRPEF e le relative addizionali (regionale e comunale) sui redditi fondiari derivanti da beni immobili non locati.

Occorre ricordare che per quanto concerne i terreni concessi in affitto per uso agricolo, il reddito agrario concorre a formare il reddito complessivo dell’affittuario, anziché quello del proprietario, mentre il proprietario deve dichiarare il reddito dominicale e non l’ammontare del canone stabilito nel contratto[13].

La Legge 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 50, ha disposto che il reddito agrario e dominicale debbano essere rivalutati rispettivamente del 70% e dell’80%. Pertanto la società semplice che concede in affitto terreni agricoli può considerare assorbito il canone di affitto nel reddito dominicale, ma dovrà provvedere alla sua rivalutazione nella misura dell’80%[14]. Tale valore dovrà poi essere ulteriormente rivalutato del 30%[15].

[1] Art. 2249 c.c.: “Le società che hanno per oggetto l’esercizio di un’attività commerciale devono costituirsi secondo uno dei tipi( regolati nei capi III e seguenti di questo titolo.

Le società che hanno per oggetto l’esercizio di un’attività diversa sono regolate dalle disposizioni sulla società semplice, a meno che i soci abbiano voluto costituire la società secondo uno degli altri tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo.”

Sono salve le disposizioni riguardanti le società cooperative e quelle delle leggi speciali che per l’esercizio di particolari categorie di imprese prescrivono la costituzione della società secondo un determinato tipo.

[2] Con la risposta all’istanza di interpello n. 426 del 24 ottobre 2019, l’Agenzia delle Entrate ha fornito un importante chiarimento in materia di qualificazione fiscale delle operazioni immobiliari, precisando che l’attività di realizzazione e successiva rivendita di unità immobiliari non può essere considerata una mera forma di gestione o valorizzazione patrimoniale, ma deve essere qualificata come attività di natura imprenditoriale.

Secondo l’Amministrazione finanziaria, tale qualificazione si impone ogniqualvolta l’intervento sul complesso immobiliare non si limiti a un’operazione occasionale di ristrutturazione o dismissione, bensì sia chiaramente orientato alla costruzione e alla successiva vendita di unità abitative, box auto o posti macchina a terzi. L’elemento determinante, ai fini della qualificazione, è rappresentato dalla presenza di un’organizzazione produttiva strutturata, idonea allo svolgimento dell’attività edilizia in modo professionale e continuativo, nonché dalla reiterazione o dalla durata nel tempo delle operazioni. 6yIn questa prospettiva, l’Agenzia sottolinea che l’attività in questione assume connotati imprenditoriali non solo quando venga svolta da un soggetto formalmente organizzato come impresa, ma anche quando il comportamento complessivo del contribuente evidenzi un intento speculativo sistematico, supportato da mezzi e risorse adeguati alla produzione e commercializzazione dei beni immobili.

[3] Con riferimento all’utilizzo del bene per fini personali si ricorda che l’art. 2256 c.c., relativo alla società semplice, dispone che “Il socio non può servirsi, senza il consenso degli altri soci, delle cose appartenenti al patrimonio sociale per fini estranei a quelli della società”. Se ne desume che il godimento del bene da parte del singolo socio non è vietato in assoluto, ma è subordinato all’autorizzazione degli altri soci.

[4] In linea generale si può affermare che la ratio sottesa alla disciplina che è stata introdotta dall’articolo 30, L. 724/1994 è diretta a contrastare l’utilizzo della forma societaria quale schermo per l’intestazione di beni – soprattutto immobili e altri beni di lusso – attraverso l’applicazione di una redditività minima predeterminata dal legislatore.

[5] Nel sistema italiano, gli articoli 457 e 458 del codice civile sanciscono il divieto dei patti successori, impedendo a chiunque di disporre della propria successione per atto tra vivi. Tale divieto, finalizzato a preservare la libertà testamentaria e a garantire la tutela dei legittimari, ha tuttavia l’effetto collaterale di ostacolare ogni forma di programmazione anticipata della trasmissione patrimoniale, rendendo più complessa la prevenzione dei conflitti familiari che spesso emergono al momento dell’apertura della successione. Per rispondere a tali esigenze — e in linea con le raccomandazioni della Commissione europea, che sollecitavano gli Stati membri a favorire la continuità delle imprese familiari e a mitigare gli effetti restrittivi del divieto dei patti successori — il legislatore italiano ha introdotto nel 2006 la disciplina del patto di famiglia (artt. 768-bis ss. c.c.). Tale istituto consente all’imprenditore, o al titolare di partecipazioni sociali, di trasferire in vita l’azienda o le quote societarie a uno o più discendenti, con il consenso degli altri legittimari, i quali possono essere compensati mediante conguagli in denaro o in natura. Dal punto di vista fiscale, la regolamentazione del patto di famiglia è contenuta nell’art. 3, comma 4-ter, del D.Lgs. n. 346/1990 (Testo unico delle imposte sulle successioni e donazioni), che prevede l’esenzione dall’imposta di successione e donazione per i trasferimenti di aziende o partecipazioni effettuati mediante tale strumento, purché il beneficiario mantenga il controllo o la titolarità del bene per almeno cinque anni.

[6] Agenzia delle Entrate, Circolare 22 gennaio 2008 n. 3/E, paragrafo 8.3.2: “In base al tenore letterale della disposizione in commento, si evince che l’imposta sulle successioni e donazioni non si applica ogniqualvolta il trasferimento riguardi partecipazioni in società di persone, purché, ovviamente, ricorrano gli ulteriori requisiti indicati dall’articolo 3, comma

4-ter, del TUS. Viceversa, nell’ipotesi in cui il trasferimento abbia a oggetto azioni o quote di partecipazione in società di capitali, l’agevolazione in parola trova applicazione qualora il beneficiario del trasferimento, per effetto di quest’ultimo, possa disporre del controllo della società in base all’articolo 2359, primo comma, n. 1), del codice civile. […] Di conseguenza, il beneficiario del trasferimento di azienda o di rami di esse, di quote sociali e di azioni non è tenuto a corrispondere l’imposta sulle successioni e donazioni a condizione che per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento detenga il controllo societario: questa ipotesi, evidentemente, ricorre ogniqualvolta il trasferimento abbia a oggetto quote sociali e azioni di soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera a), del TUIR.”. Nello stesso senso, Risoluzione 18 novembre 2008 n.446/E e Risposta della DRE Lombardia 2 agosto 2011 prot. n. 904.86017/2011.

[7] Art. 25 del TUIR: “Sono redditi fondiari quelli inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel   territorio dello   Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano. I redditi fondiari si distinguono in redditi dominicali dei terreni, redditi agrari e redditi dei fabbricati.”.

[8] La Corte di Cassazione con la sentenza n. 23679/2019 ha stabilito che i soci delle società semplici non possono beneficiare dell’esenzione IMU per l’abitazione principale nella titolarità della società semplice, infatti il socio dovrebbe possedere direttamente l’immobile o un diritto reale sullo stesso.

[9] Ai sensi di quanto previsto dall’art. 67, co. 1, lett. b-bis) del TUIR – disposizione introdotta con la Legge di Bilancio 2024 – il periodo di rilevanza fiscale — ossia l’“holding period” — per la tassazione delle plusvalenze derivanti dalla vendita di immobili che hanno beneficiato del Superbonus 110% è stato elevato a 10 anni. In sostanza, se l’immobile è ceduto entro dieci anni dalla conclusione degli interventi agevolati, la plusvalenza realizzata è imponibile, anche se l’immobile è stato posseduto per più di cinque anni, come invece previsto dal regime ordinario dell’art. 67, comma 1 lett. b) del TUIR. Restano tuttavia escluse da tale disposizione gli immobili acquisii per successione e e quelli che siano stati adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari per la maggior parte dei dieci anni antecedenti alla cessione o, qualora tra la data di acquisto o di costruzione e la cessione sia decorso un periodo inferiore a dieci anni.

[10] Art. 41 del TUIR.

[11]Arti. 3, comma 48, L. 662/1996.

[12] Art. 37 del TUIR.

[13] Ai sensi di quanto previsto dall’art. 185 del TUIR il proprietario può dichiarare l’ammontare del canone se questo, per effetto di regimi legali, risulta inferiore di oltre un quinto al reddito dominicale.

[14] La rivalutazione non si applica ai terreni concessi in affitto per usi agricoli, per un periodo non inferiore a cinque anni, a giovani che non hanno compiuto i 40 anni, aventi la qualifica di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo professionale, anche in forma societaria, purché, in quest’ultimo caso, la maggioranza delle quote o del capitale sociale sia detenuto da giovani in possesso delle suddette qualifiche.

[15] Art. 1, comma 512, Legge 24 dicembre 2012, n. 228.