IL CONTRATTO DI SOCCIDA. DAL RISCHIO RIQUALIFICAZIONE AGLI ULTIMI CHIARIMENTI DELL’AGENZIA

di Vanni Fusconi, centro studi ConsulenzaAgricola.it

Il contratto di soccida è l’ultimo contratto agrario associativo fra quelli tipizzati dal Legislatore del 1942[1], ma nonostante rivesta grande importanza per tutto il settore dell’allevamento, a tutt’oggi permangono ancora dubbi interpretativi sulla sua applicazione, in parte fugati da recenti e importanti pronunciamenti della giurisprudenza di legittimità e dai chiarimenti offerti dall’Agenzia delle Entrate con la Risposta a quesito n. 134/2024.

All’art. 2170, il Codice Civile offre una nozione piuttosto chiara del contratto di soccida e in poche righe ne delinea le caratteristiche essenziali, evidenziando come in questa forma contrattuale il soccidante e il soccidario si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili che ne derivano.

Possono essere individuate tre tipologie di contratti di soccida:

  • la soccida semplice (art. 2170 – 2181 c.c.);
  • la soccida parziaria (art. 2182 – 2185 c.c.);
  • la soccida con conferimento di pascolo (art. 2186 c.c.).

Nella soccida semplice il soccidante conferisce gli animali e i mangimi necessari per l’allevamento, mentre il soccidario, seguendo le direttive del soccidante, presta il lavoro indispensabile per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, mettendo a disposizione i locali, i terreni e le attrezzature necessarie per l’allevamento.

Nella soccida parziaria gli animali sono conferiti, nelle proporzioni convenute, da entrambi i contraenti, i quali ne sono, pertanto, comproprietari. Nella soccida con conferimento di pascolo, infine, gli animali sono interamente conferiti dal soccidario e il soccidante mette a disposizione il terreno per il pascolo.

Nel corso della presente trattazione ci occuperemo esclusivamente della soccida semplice, che rappresenta la tipologia contrattuale maggiormente diffusa, considerato che nella maggioranza dei casi il bestiame viene conferito interamente dal soccidante.

Presupposto essenziale del contratto di soccida è il carattere associativo consistente nell’esercizio in comune dell’attività di allevamento con condivisione del rischio di impresa[2]. Entrambi i contraenti, infatti, devono partecipare al rischio sotteso all’allevamento; quindi, non rientrano nell’ambito applicativo del contratto di soccida tutte quelle fattispecie che hanno quale obiettivo la corresponsione di un importo predefinito, poiché in tutti questi casi si concretizzerebbe un contratto di appalto.

 Il conferimento degli animali da parte del soccidante

Il conferimento del bestiame rappresenta il momento iniziale del rapporto associativo, poiché è con l’immissione nella disponibilità del soccidario dell’oggetto della conduzione associata che l’esercizio in comune dell’attività di impresa ha inizio.

L’art. 2171 del c.c., rubricato “Della soccida semplice” stabilisce che la stima iniziale degli animali deve indicare “il numero, la razza, la qualità, il sesso, il peso e l’età del bestiame ed il relativo prezzo di mercato” e che la già menzionata stima non ne trasferisce la proprietà al soccidario.

La stima iniziale riveste dunque carattere fondamentale nell’ambito del contratto associativo, poiché come enunciato dallo stesso Legislatore al secondo periodo del 3 comma della disposizione in esame “la stima serve di base per determinare il prelevamento di cui ha diritto il soccidante alla fine del contratto, a norma dell’art. 2181 c.c.”.

La stima rappresenta il momento iniziale del rapporto, la base da cui partire per comprendere se l’allevamento è stato condotto con successo (in questo caso si registrerà una crescita dell’animale o una buona produzione di utilità) oppure in maniera infruttuosa.

Come previsto dal secondo comma dell’art. 2171 del Codice Civile, il conferimento del bestiame non ha effetti traslativi. In altre parole: il soccidante non trasferisce in capo al soccidario il proprio diritto di proprietà sugli animali.

L’inquadramento ai fini IVA delle operazioni che caratterizzano il contratto di soccida, fra cui, il conferimento degli animali, è stato offerto dalla Circolare n. 48/E del 9 febbraio 1995[3], con cui il Ministero delle Finanze ha precisato che tale operazione non è soggetta ad IVA, in quanto il conferimento del bestiame da parte del soccidante non viene considerato trasferimento del diritto di proprietà da parte dello stesso. Tuttavia, le successive (eventuali) operazioni di rivendita degli animali sono soggette all’imposta.

Gli accrescimenti

L’articolo 2170 del Codice Civile dispone che l’accrescimento consiste tanto nei parti sopravvenuti, quanto nel maggior valore intrinseco che il bestiame ha al termine del contratto. Per gli animali nati è, quindi, fuori dubbio che gli stessi possano rientrare nel novero degli accrescimenti, mentre per gli animali destinati all’ingrasso occorre prestare maggiore attenzione. In quest’ultima ipotesi non può essere considerato corretto dividere l’intero quantitativo dei capi sulla base delle percentuali di riparto, poiché, secondo la definizione civilistica, l’accrescimento è dato dalla differenza fra valore iniziale e valore finale. Tale concetto è ben esplicitato nell’articolo 2181 del Codice Civile, in base al quale tale differenza si ottiene attraverso il prelievo da parte del soccidante di un complesso di capi, che, avuto riguardo al numero, alla razza, al sesso, al peso, alla qualità e all’età, sia corrispondente alla consistenza del bestiame apportato all’inizio della soccida.

Gli accrescimenti vanno divisi tra le parti secondo le due seguenti modalità alternative:

  1. può essere riconosciuto al soccidario una parte di animali proporzionale alla quota di accrescimenti a lui spettante sulla base delle percentuali di riparto;
  2. se previsto contrattualmente, gli accrescimenti possono essere monetizzati.

Ripartizione degli accrescimenti

In questa ipotesi il soccidario trattiene la quota di propria spettanza degli accrescimenti sotto forma di animali oppure di prodotti e utili che ne derivano (ad es. latte, uova).

Anche la ripartizione degli accrescimenti, come il conferimento degli animali, rappresenta un’operazione neutra ai fini IVA, ma ciò non preclude l’assoggettamento ad imposta delle successive operazioni di vendita degli animali. In tal senso la Circolare n. 48/E del 9 febbraio 1995.

Come sopra già argomentato, soccidante e soccidario sono considerati soggetti passivi di imposta ai fini IVA, pertanto, in caso di vendita degli animali dovrà essere applicato il regime speciale IVA – regime naturale – e le relative percentuali di compensazione di cui all’art. 34 del D.P.R. n. 633/1972. Diversamente, nell’ipotesi in cui le parti abbiano optato per il regime IVA ordinario, ai sensi di quanto previsto dall’art. 34 comma 11 del D.P.R. n. 633/1972, potranno usufruire del regime di detrazione dell’imposta di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972.

Monetizzazione degli animali

Nella soccida monetizzata, una volta ultimato il ciclo di allevamento, l’intero quantitativo dei capi allevati viene ritirato dal soccidante, il quale lo vende a terzi e provvede a corrispondere al soccidario una somma di denaro corrispondenze alla quota di accrescimento allo stesso spettante sulla basse delle percentuali di riparto definite nel contratto di soccida. Nell’ipotesi di monetizzazione non avviene, dunque, alcuna “divisione degli animali”, poiché l’intero quantitativo del bestiame viene ritirato dal soccidante.

Come chiarito dall’Agenzia delle Entrate la divisione dell’accrescimento è “…un atto dichiarativo dell’acquisto originario degli stessi, che altro non sono che una fruttificazione del diritto di proprietà del bestiame oggetto del contratto di soccida[4]. Nella soccida monetizzata, mancando questo momento, non avviene in capo al soccidario un acquisto a titolo originario della sua quota di accrescimento e pertanto nessuna cessione di beni, nel senso inteso dall’articolo 2 del Decreto IVA, può essere dallo stesso effettuata a favore del soccidante piuttosto che di un soggetto terzo[5].

La quota dell’intero ricavato spettante al soccidario (c.d. monetizzazione) assume dunque la natura di utile e in quanto tale non è soggetta a IVA[6]. Tale interpretazione crea non pochi problemi ai fini dell’applicazione dell’imposta.

Il fatto che tale operazioni non siano soggette ad IVA ha indotto l’Agenzia delle Entrate a negare il diritto alla detrazione e al rimborso dell’imposta assolta dal soccidario (ovviamente in regime normale IVA) per operazioni inerenti all’attività di allevamento in soccida. Ciò in virtù del fatto che l’art. 19 comma 2 del D.P.R. n. 633/1972 nega la detraibilità dell’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta.

Tale orientamento, che a tutt’oggi si ritiene discutibile, è stato condiviso dalla giurisprudenza di legittimità[7] e confermato dall’Agenzia nella Risposta al quesito n. 134 del 2024[8].

Il rischio riqualificazione

Come evidenziato nei paragrafi precedenti il contratto di soccida offre alle parti, ed in particolare al soccidario, la possibilità di trattenere la propria quota di accrescimenti oppure optare per la monetizzazione. Nel caso cui si opti per la prima soluzione il soccidario potrebbe anche scegliere di vendere la propria quota di animali al soccidante stesso, configurandosi ai fini fiscali una vera e propria cessione di beni imponibile IVA secondo il regime proprio del soggetto cedente.

Quest’ultima soluzione, tutt’altro che infrequente nel mondo dell’allevamento, sembra essere proprio quella su cui l’Agenzia concentra maggiormente la propria attenzione, soprattutto quando ci si trova al cospetto di operazioni poco chiare e non lineari sia dal punto di vista contrattuale che documentale.

L’Amministrazione riqualifica la ripartizione degli accrescimenti in una soccida monetizzata, quindi si crea in capo ad entrambe le parti una problematica estremamente rilevante di indetraibilità IVA.

La possibilità di monetizzare la propria quota di accrescimenti, tuttavia, non può di certo portare all’automatica conclusione secondo cui ogni qual volta il soccidario venda la propria quota di animali al soccidante ci si trovi al cospetto di un contratto di soccida monetizzata.

Tale orientamento è stato condiviso dalla Corte di Cassazione[9] che si è espressa sulla legittimità di un diniego al rimborso IVA opposto dall’Agenzia ad un soccidario proprio in virtù del fatto che il contratto di soccida con ripartizione degli accrescimenti avrebbe in realtà dissimulato la monetizzazione del prodotto con la conseguente indetraibilità specifica dell’imposta in capo al soccidario.

Le motivazioni sottese alla riqualificazione del rapporto erano legate al fatto che il soccidario vendeva e fatturava la propria quota di accrescimenti al soccidante nonostante il contratto di soccida, fino all’anno precedente, fosse finalizzato alla monetizzazione e prevedesse fra le proprie clausole contrattuali la possibilità di vendere la propria quota di animali al soccidante solo in via residuale. In buona sostanza, secondo l’Ufficio, il fatto che la gestione contabile del rapporto non corrispondesse a quanto riportato nel contratto era di per sé sufficiente a riqualificare il rapporto ai fini IVA.

Con l’Ordinanza in esame la Corte ha ribadito il fondamentale principio secondo cui nell’ambito del contratto di soccida sia il soccidante sia il soccidario devono essere considerati imprenditori agricoli; pertanto, con riferimento alla cessione di prodotti agricoli entrambi hanno diritto ad applicare il regime speciale previsto dall’articolo 34 del D.P.R. n. 633/1972. A maggior ragione, sostengono i Giudici, hanno diritto ad applicare quello ordinario che prevede la detrazione dell’imposta.

Secondo i Giudici di legittimità, inoltre, il diritto alla detrazione IVA del soccidario non può essere messo in discussione per il semplice fatto che le parti non si siano attenute alle pattuizioni contrattuali, poiché tali dinamiche attengono alla sfera privatistica dei soggetti contraenti e non sono di certo sufficienti a legittimare la riqualificazione del rapporto.

Le motivazioni espresse dalla Suprema Corte appaiono indubbiamene condivisibili, ma perché le stesse possano esplicitare appieno la propria efficacia è pur sempre necessario che ci si trovi al cospetto di un contratto associativo genuino in cui le parti hanno effettivamente inteso provvedere alla ripartizione degli animali.

Ritengo che l’orientamento espresso dai Giudici di legittimità non debba portare a concludere, in maniera semplicistica, che l’Agenzia è impossibilitata a riqualificare il rapporto fra le parti in soccida monetizzata. Infatti, tali affermazioni potrebbero indurre a sottovalutare l’importanza di una gestione virtuosa del rapporto associativo, che non può prescindere da una redazione accurata del contratto di soccida e da una gestione corretta della relativa documentazione (verbale di inizio e fine ciclo).

Questa tesi, più volte evidenziata sulle pagine di ConsulenzaAgricola.it[10] e sulla stampa specializzata[11], è stata recepita dall’Agenzia che, con la Risposta n. 134, ha chiarito che per dare fondamento giuridico alla ripartizione degli animali e legittimare la fatturazione della quota di spettanza del soccidario, è importante che gli accrescimenti vengano in prima battuta effettivamente divisi fra le parti, poiché, se così non fosse, non verrebbe meno la titolarità del bestiame in capo al soccidante (articolo 2171 del Codice Civile) e i compensi percepiti dal soccidario potrebbero essere assimilati a una ripartizione di proventi in denaro.

Per evitare contestazioni è opportuno che al termine del ciclo di allevamento avvenga la ripartizione degli accrescimenti tra il soccidante e il soccidario, determinati dalla differenza inventariale degli animali rilevati a fine ciclo rispetto a quelli di inizio del ciclo di allevamento. Per questo motivo è necessario che le parti redigano un verbale di inizio ciclo e un verbale di fine ciclo, entrambi contenenti l’indicazione del numero, della razza, della qualità, del sesso, del peso, dell’età e del prezzo di mercato degli animali conferiti in allevamento. Inoltre, la valorizzazione degli accrescimenti deve avvenire soltanto dopo che il soccidante ha prelevato un complesso di capi che corrisponda alla consistenza degli animali all’inizio della soccida.

L’attribuzione degli animali a titolo originario

Il contratto di soccida rientra nell’alveo dei contratti associativi, conseguentemente a seguito della divisione degli accrescimenti la quota di animali viene attribuita alle parti a titolo originario. Ciò significa che sia il soccidante che il soccidario potranno considerare la quota di propria spettanza come derivante dall’attività agricola principale di allevamento.

Le riflessioni svolte dall’Agenzia ai fini IVA nella Risposta a quesito n. 134 del 2024 offrono lo spunto per offrire un fondamento giuridico alla soccida monetizzata. Questa fattispecie, infatti, è stata coniata dalla stessa Amministrazione Finanziaria ma, fino ad oggi, è rimasta priva di un adeguato coordinamento fra disciplina civilistica e fiscale.  

Come già anticipato, nella soccida semplice il bestiame è conferito dal soccidante e la stima del bestiame all’inizio del contratto di soccida non ne trasferisce la proprietà al soccidario[12]. Pertanto, come evidenziato dall’Agenzia, se a fine ciclo di allevamento gli animali non vengono divisi fra le parti, previa restituzione al soccidante di una quota di animali corrispondente a quella originariamente conferita, la titolarità iniziale dell’intero quantitativo dei capi oggetto dell’allevamento non viene interrotta. 

Nel caso in cui le parti decidano di monetizzare gli accrescimenti non avviene alcuna divisione degli animali ed il soccidante mantiene, con continuità, la titolarità dell’intero quantitativo di bestiame provvedendo direttamente alla vendita.

Alla luce di ciò si ritiene che in quest’ultima ipotesi il soccidante sia legittimato a considerare l’intero quantitativo di animali nella sua disponibilità a titolo originario potendo, quindi, usufruire legittimamente del regime fiscale proprio dell’attività agricola principale (art. 32 del TUIR – art. 34 D.P.R. n. 633/1972). Del resto, in un’ottica di coerenza ed organicità, se in caso di mancata divisione degli animali si vuole da un lato negare al soccidario la possibilità di fatturare una quota di accrescimenti, dall’altro occorre riconoscere l’intera titolarità degli animali al soccidante a titolo originario.

Il soccidante che non alleva in proprio

In tema di soccida ed in particolare sul requisito di imprenditore agricolo dei soggetti che partecipano all’attività di allevamento in forma associata, si è espressa ancora una volta la Corte di Cassazione che con due recenti pronunciamenti[13], contribuendo in maniera determinante a superare un orientamento non condivisibile dell’Amministrazione Finanziaria.

I Giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi sull’orientamento espresso dal Ministero delle Finanze che con la Circolare n. 32/1973 e con la Risoluzione 381861 del 28 maggio 1980[14] ha ritenuto che il soccidante che non è anche titolare di un allevamento in proprio non può applicare il regime speciale di detrazione IVA previsto dall’articolo 34, comma 1. del D.P.R. n. 633/1972.

L’orientamento di cui sopra, per anni avallato dalla giurisprudenza di merito, anche alla luce di due risalenti sentenze della Corte di Cassazione[15] che sembravano convalidare tale tesi, è stato definitivamente sconfessato con le due sentenze del marzo 2022. In tale occasione la Suprema Corte ha riconosciuto piena dignità di imprenditore agricolo sia al soccidario che al soccidante ed in quest’ultimo caso anche se lo stesso svolge esclusivamente attività in soccida.

Al fine di verificare la sussistenza del requisito soggettivo IVA, la Cassazione muove le sue considerazioni dall’ambito unionale e lo fa evidenziando come la disciplina comunitaria consenta ai Paesi membri di prevedere dei regimi speciali di detrazione dell’Imposta sul Valore Aggiunto per i produttori agricoli.

In particolare, la qualifica di produttore agricolo e la possibilità di applicare il regime 34 del D.P.R. n. 633/1972 non deve essere ricercata nelle modalità di svolgimento dell’attività, quanto nella finalità della propria attività e cioè la produzione di prodotti agricoli da destinare alla vendita sul mercato.

Inoltre, prosegue la Corte, con le modifiche apportate all’art. 2135 c.c. dalla Legge di orientamento (D.Lgs. n. 228 del 2001) al fine della qualifica di imprenditore agricolo non è più necessario porre in essere l’intero ciclo biologico, ma è sufficiente l’intervento ad una fase della produzione, purché attinente alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico o ad una fase necessaria dello stesso. Ciò evidenzia come l’art. 34 possa trovare applicazione anche nel caso di conduzione associata.

Appurata l’astratta applicabilità del regime speciale nell’ambito dei contratti associativi, la Corte ha poi analizzato la possibilità di riconoscere la soggettività IVA ad un soggetto che svolga esclusivamente attività di allevamento quale soccidante.

Anche su questo punto la Corte non ha dubbi e sulla base di quanto previsto dall’art. 2170 del Codice Civile secondo cui “soccidante e soccidario si associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame” ha affermato che al soccidante debba essere riconosciuta piena dignità di imprenditore agricolo poiché, a norma dell’art. 2173 c.c., allo stesso compete il potere direttivo e conseguentemente una partecipazione al rischio di impresa pari al soccidario.

La Corte ha chiarito inoltre la portata interpretativa del citato pronunciamento del 2007 statuendo che in quell’occasione fu negata la soggettività IVA al soccidante, poiché non ci si trovava al cospetto di un contratto di soccida genuino, ma ad un contratto in cui il soccidante conferiva esclusivamente gli animali e provvedeva in alcun modo a partecipare all’attività di allevamento.

L’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità è stato condiviso anche dall’Agenzia delle Entrate[16] che con un recente chiarimento ha confermato che nel contratto di soccida la qualifica di imprenditore agricolo spetta sia al soccidante che al soccidario, con la conseguenza che entrambi i soggetti possono applicare il regime speciale IVA ex articolo 34 del D.P.R. n. 633/72, a prescindere dal fatto che il soccidante sia anche titolare di un allevamento in proprio.

Trattamento ai fini delle imposte dirette

Ai fini delle imposte dirette il reddito derivante dalla vendita degli animali o dei frutti attribuiti alle parti a titolo originario nell’ambito del contratto di soccida è soggetto al medesimo trattamento fiscale dei redditi di allevamento di cui all’art. 32 comma 2 lett. b) del TUIR[17].

In particolare, ai fini dell’imposta sul reddito la soccida può riguardare l’allevamento degli ani­mali che, secondo la correlata normativa (art. 32 del TUIR.), rientrano nell’elenco pubblicato periodicamente da un decreto del Ministro dell’Economia e Finanze, di concerto con quello delle Politiche Agricole[18].

Per gli imprenditori agricoli individuali, le società semplici e gli enti non com­merciali, il reddito di allevamento può essere determinato, alternativamente, in 3 modi:

  • in base al reddito agrario, se il terreno è potenzialmente sufficiente a pro­durre almeno un quarto del mangime necessario;
  • in base ai coefficienti previsti dall’art. 56, comma 5, del TUIR, qualora il ter­reno sia insufficiente (reddito d’impresa normalizzato con il reddito agrario);
  • in modo analitico, in base alle risultanze del bilancio, se l’allevamento è con­dotto senza terra o per effetto di opzione in dichiarazione dei redditi.

Per la determinazione dei capi compresi nel reddito agrario, il terreno da prendere a riferimento dovrebbe essere quello nella disponibilità del soccidante[19] (in proprietà o in affitto) in quanto i mangi­mi sono da esso conferiti[20]. Tuttavia, secondo autorevole dottrina può essere considerato anche il reddito agrario del soccidario, in quanto questi apporta lavoro organizzato[21].

Se i capi allevati attribuiti al soccidario sono eccedenti rispetto al reddito agrario, il soccidario (persona fisica o società semplice) può optare per la determinazione analitica del reddito per la parte di animali che eccedono quella rientrante nel reddito agrario (ricavi meno costi). L’art. 56 comma 5 del TUIR non trova applicazione per le società diverse dalla società semplice, per le quali i redditi derivanti dagli animali eccedenti saranno sempre determinati a costi/ricavi anche nel caso in cui la società abbia optato per la determinazione del reddito su base catastale[22].

 

 

 

[1] Nell’ordinamento italiano, la mezzadria e i contratti simili sono regolati dagli art. 2141 e ss. del Codice Civile. La Legge 15 settembre 1964, n. 756, vieta però – a far data dal 23 settembre 1974 – la stipulazione di nuovi contratti di mezzadria, colonia parziaria o soccida, mentre la Legge 3 maggio 1982, n. 203, prevede la conversione di quelli esistenti in contratti di affitto a coltivatore diretto, dietro richiesta di una sola delle parti (colono).

[2] “Il contratto di soccida si configura quale contratto agrario di tipo associativo per l’esercizio dell’attività di allevamento sicché, ai sensi dell’art. 2135, cod. civ., lo stesso dà luogo ad un’impresa agricola associata, di cui sono contitolari, sebbene con obbligazioni e funzioni diverse, sia il soccidante che il soccidario: (…) Quel che rileva, …, è il fatto che, per effetto dello svolgimento di una impresa agricola in forma associata, il soccidante ed il soccidario condividono il comune rischio di impresa assunto con la stipula del contratto, sicché gli stessi sono contitolari dell’impresa di allevamento e, quindi, sono entrambi imprenditori agricoli (…)” Corte di Cassazione, Sentenza n. 987 e 1146 del 2022, nonché Ordinanza n. 15746 del 2023.

[3] “Gli atti generatori il contratto di soccida non sono quindi, riassumendo, fattispecie aventi rilievo ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Identica affermazione può farsi relativamente alla fase estintiva del menzionato rapporto contrattuale. Ed invero, per quanto riguarda la soccida semplice, il soccidante preleva, al termine della stessa, un complesso di capi che per numero, razza, sesso, peso e quantità siano corrispondenti al bestiame originariamente apportato (art. 2181 Codice civile), in pratica riassumendo la materiale disponibilità del proprio bestiame inizialmente conferito.

Per quanto attiene alla divisione degli accrescimenti, questa non è altro che un atto dichiarativo dell’acquisto originario degli stessi, che altro non sono che una fruttificazione del diritto di proprietà del bestiame oggetto del contratto di soccida.” Agenzia delle Entrate Circolare n. 48/E del 9 febbraio 1995.

[4] Agenzia delle Entrate, Circolare n. 48/E del 9 febbraio 1995.

[5] Agenzia delle Entrate, Risposta n. 134/2024.

[6] Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 504929 del 1973.

[7] “Sulla natura di questa somma ha avuto modo di pronunciarsi anche la Corte di Cassazione secondo cui la monetizzazione della quota del soccidario “non può equipararsi alla cessione di denaro o altro titolo di credito in denaro, soggetta, come tale ad IVA ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. a)…, costituendo al contrario suddivisione degli utili conseguenti allo svolgimento di un’attività eseguita in forma associativa, come tale non rientrante nella previsione dell’art. 2 (n.d.r. del Decreto IVA) richiamato” (cfr. sentenza 10 aprile 2013, n. 8727). La cessione di denaro – che non inibisce il diritto alla detrazione – è “da ritenersi, difatti, configurabile solo quando le parti pongano in essere un trasferimento di denaro che passi in proprietà al cessionario, come nel caso del mutuo o del deposito irregolare, nei quali – avendo il contratto ad oggetto beni fungibili – insorge esclusivamente l’obbligo, per il mutuatario e per il depositario che divengono proprietari della somma entrata nella loro disponibilità, di restituire il tantundem eiusdem generis et qualitatis…” (Corte di Cassazione, sentenza 11 dicembre 2013, n. 27715, nonché sentenza 15 luglio 2015, n. 14791 e ordinanza n. 11592 del 2021).

[8] “Con riferimento alla spettanza e all’esercizio del diritto alla detrazione da parte del soccidario e del soccidante, occorre precisare che, quando entrambi rivestono la qualifica imprenditori agricoli cui consegue, al ricorrere dei presupposti, lo status di soggetto passivo IVA, il diritto alla detrazione spetta e va dagli stessi esercitato secondo le modalità di cui all’articolo 34 del Decreto IVA, fermo restando in ogni caso il rispetto dei principi di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto IVA, tra cui quelli di afferenza e inerenza.

Nel prevedere, infatti, una detrazione forfettizzata per gli imprenditori agricoli, l’articolo 34 fa riferimento a “…la detrazione prevista nell’articolo 19…”: quanto a dire che dal rispetto dei principi ivi previsti non si può prescindere.

Il principio dell’afferenza, come noto, preclude in linea generale la detrazione dell’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni attive esenti o fuori campo. Pertanto, nella soccida monetizzata, se il soccidario non effettua operazioni attive rilevanti ai fini IVA, limitandosi a percepire a titolo di utile la monetizzazione delle sue quote di accrescimento, non può detrarsi l’IVA assolta sugli acquisti, ancorché inerenti, perché “a valle” effettua operazioni fuori campo IVA e dunque non ci sono nemmeno “…cessioni di prodotti agricoli e ittici compresi nella prima parte dell’allegata tabella A…” sul cui ammontare imponibile applicare le percentuali di compensazione previste dal citato articolo 34.” Agenzia delle Entrate Risposta a quesito n. 134/2024.

[9] “contrariamente a quanto affermato dalla CTR, non assume rilievo la circostanza per cui, in forza del contratto di soccida, sia prevista la monetizzazione della percentuale di accrescimento spettante al soccidario posto che tale profilo attiene ai rapporti interni tra gli associati e non all’attività d’impresa agricola, sicché essa integra un indice estraneo e non pertinente ai fini della qualificazione dell’attività del soccidario”. Cassazione Civile, Ordinanza n. 15764/2023.

[10] Consulenzaagricola.it: “La cassazione riconosce piena dignità imprenditoriale a soccidante e soccidario”, “Primo arresto della Cassazione sulla riqualificazione del contratto di soccida”, “Il contratto di soccida. Le insidie emerse dagli accertamenti e gli ultimi orientamenti giurisprudenziali”, “Sul contratto di soccida si fondano buona parte delle attuali filiere zootecniche. Attenzione agli aspetti sostanziali e formali dell’accordo”.

[11] Sole 24 Ore Articolo Fusconi Vanni, Giorgio Gavelli 19 giugno 2023

[12] Art. 2171 Codice Civile: “Nella soccida semplice il bestiame è conferito dal soccidante. La stima del bestiame all’inizio del contratto non ne trasferisce la proprietà al soccidario. La stima deve indicare il numero, la razza, la qualità, il sesso, il peso e l’età del bestiame e il relativo prezzo di mercato. La stima serve di base per determinare il prelevamento a cui ha diritto il soccidante alla fine del contratto, a norma dell’articolo 2181”.

[13] Corte di Cassazione , Ordinanze n. 987. n. 1146 del 2022, n. 9267 del 2023.

[14] “Al riguardo, devesi preliminarmente far presente che con circolare 32/501388 del 27-4-1973 , è stato chiarito che, nel caso di allevamento condotto in base ad un contratto di soccida, possono essere considerati produttori agricoli, ai fini dell’ art. 34 del DPR 26-10-1972, n. 633 e successive modificazioni, sia il soccidario che il soccidante il quale svolga in proprio l’ attività di allevatore.”. Ministero delle Finanze – Risoluzione 28 maggio 1980, n. 381861

[15] Corte di Cassazione Sentenze n 4913 e n. 11597 del 2007.

[16] Direzione regionale dell’Emilia-Romagna, in risposta a un’istanza di Interpello prot. n. 909-920/2023.

[17] Ai sensi di quanto previsto dall’art. 32, comma 2 lett. b) del D.P.R. 917/1986, sono considerate attività agricole le attività dirette all’allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno. Con decreto del Ministro delle Finanze, di concerto con il Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste, è stabilito per ciascuna specie animale il numero dei capi che rientra nei limiti di cui alla lettera b) del comma 2, tenuto conto della potenzialità produttiva dei terreni e delle unità foraggere occorrenti a seconda della specie allevata.

[18] Vedi nota 17.

[19] Art. 33, comma 2 del TUIR: “Nei casi di conduzione associata, salvo il disposto dell’articolo 5, il reddito agrario concorre a formare il reddito complessivo di ciascun associato per la quota di sua spettanza. […]”.

[20] Ministero delle Finanze, Risoluzione 26/07/79 n. 1266

[21] Tosoni – Preziosi, Agricoltura e Fisco, 6^ edizione 2015, pag. 168.

[22] Le società di persone, le società a responsabilità limitata e le società cooperative che rivestono la qualifica di società agricola possono optare per la tassazione su base catastale in alternativa al regime analitico del reddito d’impresa (articolo 1, comma 1093, Legge n. 296/2006).